Un popolo senza storia

La capacità naturale degli italiani di raccontare storie rischia di dissolversi, le canzoni dell’ultimo Festival di Sandremo stanno lì a dimostrarlo. Cosa sta accadendo? LUCA DONINELLI

La sola cosa che mi ha colpito all’ultimo festival di Sanremo è che le canzoni italiane non sanno più raccontare storie. Si parla di situazioni, di problemi, ci sono alcune riflessioni intime e molte chiacchiere insensate, e se c’è una storia (per esempio in “Sotto casa” di Max Gazzè) occorre cogliere l’allusione, perché il semplice ascolto non basta.

È questo il solo dato veramente significativo di Sanremo. Tutti gli altri temi (se la qualità delle canzoni sia migliorata, se i presentatori si siano dimostrati all’altezza, se la quota di temi “forti” fosse adeguata alle attese di una manifestazione nazional-popolare come Sanremo, se le provocazioni politiche siano giunte a segno, se da noi esista o meno un movimento pop originale e competitivo sul mercato internazionale…) restano confinati nei rispettivi ambiti: musicale, massmediologico eccetera. 

Ma che un festival della canzone popolare non sappia più raccontarci storie non è un problema di settore. Non si tratta di un difetto dei parolieri, rimpiangere Mogol non avrebbe senso. 

Tutti, perfino i più giovani, quando si trovano la sera a cantare intorno a una chitarra, ancora oggi pescano dal patrimonio della tradizione degli anni Sessanta e Settanta: da Lucio Battisti a Fabrizio De André a Lucio Dalla, è ai cantastorie che chiediamo di intrattenerci. Le vicende umane che ci raccontano sono semplici. Sono storie d’amore, di gelosia, di struggimento. C’è la redenzione di un affetto condannato alla noia, c’è una prostituta piena d’amore e di passione, c’è un pazzo che cerca di fermare il corso della storia, c’è un uomo rimasto da solo d’estate in città e fa il bilancio della propria vita, c’è un uomo che proprio il 21 di marzo perde l’amore della propria donna, c’è perfino una ragazza che si abbronza di notte, sui tetti. 

Un paese pieno di luna, di tetti, di gonne che frusciano, di spiagge e di mare, di coppie che si appartano, di baci, di scene di gelosia, di spaghettate di mezzanotte, di fedifraghi pentiti, di coppie felici, di coppie infelici, di osterie fuori porta, di voci trasportate dal vento (quella del campanile, oppure quella di un cane in fondo alla campagna) e di molte altre cose emerge da una tradizione coerente, che abbraccia Leopardi e Lucio Battisti, Dante e Lucio Dalla. È un unico, immenso ritratto, che fa dell’Italia un oggetto del desiderio per tutto il resto del mondo, ma che noi rischiamo di non conoscere più, di non capire più. 

Eppure le cosiddette scuole di scrittura creativa sono lì per questo: per insegnare a raccontare storie. Gli editori vogliono romanzi agili e avvincenti, tutto quello che cercano sono belle storie di cui i lettori sono avidi. I libri con troppe riflessioni non vendono, uno stile perfetto non vende: ci vogliono storie, anche mal raccontate (per questo ci sono gli editor), ma che siano storie, storie, storie.

Sembra, purtroppo, che tutto questo non sia sufficiente. Perché? Lo spiega molto bene lo scrittore Daniele Del Giudice nella raccolta di saggi In questa luce, da poco in libreria per i tipi di Einaudi. “È la prima volta” scrive “che lo scrittore si trova al centro della produzione di beni culturali; non gli si chiede più di essere indagatore e narratore di un’idea del mondo o di un’altra, gli si chiede di fare il suo lavoro, di produrre e basta”. 

E poco più in là aggiunge: “Difficile fare racconto o poesia col buon governo o con l’efficienza” (e men che meno, chioso io, col cattivo governo e con l’inefficienza). 

Qui sta il punto. I muratori facciano le case, i panettieri il pane, i pittori i quadri, gli scrittori i romanzi, e così via. E i canzonettari facciano canzonette. Ciascuno faccia la sua parte, ci penserà il potere poi a organizzare la visione d’insieme: un compito, questo, che non spetta ai poeti o ai filosofi ma agli amministratori. Qualcuno dice che non c’è più bisogno di maestri, ma solo di amministratori illuminati. 

Così la capacità naturale degli italiani di raccontare storie rischia di dissolversi. Raccontare può significare infatti due cose: o sviluppare una tecnica destinata alla produzione di oggetti (romanzi, opere d’arte ecc.), o esprimere quel naturale sentimento del possibile, senza il quale il senso stesso della realtà viene mutilato. 

È questo sentimento del possibile ad essere in pericolo, oggi, in Italia. 

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