In vino veritas

C'è un comparto nell'ancora problematico sistema economico italiano che mostra segni di sviluppo e possibilità innovative. E' il cuore del nostro Paese. GIORGIO VITTADINI

E’ di questa settimana la notizia che l’Italia è tornata al primo posto nel mondo per la produzione di vino battendo la Francia, dopo averla già superata nei consumi, nelle vendite e nella qualità delle bollicine. Ma cosa sta accadendo, in generale, nella nostra filiera agroalimentare, uno dei settori trainanti del Made in Italy? Innanzitutto si assiste a un ritorno ai campi di persone giovani, qualificate, motivate. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di giovani agricoltori: 48mila aziende hanno come titolare un giovane under 35 (dato Coldiretti). Dopo anni in cui il settore è stato la Cenerentola sacrificata e svenduta nel mito di un’Italia tutta industria, il nuovo agroalimentare torna a incarnare sogni e opportunità, qualificandosi come mix di innovazione, alta qualità, tecnica, gusto, e rispetto dell’ambiente. 

Finito il tempo del produttivismo esasperato e finito anche il tempo di quel tipo di agricoltura dissennata che inquinava di diserbante, dimenticava la rotazione delle colture e prestava il fianco alla speculazione edilizia sui terreni, i “nuovi contadini” laureati portano competenze che si sposano con il desiderio di fuggire i ritmi stressanti della metropoli e il carrierismo sfrenato di molte aziende, riscoprono il fascino dell’azienda di famiglia che si tramanda da generazioni, vivono l’amore per la natura in un ritrovato gusto per la bellezza, la cura del territorio, l’amore del prodotto di qualità, il rispetto dell’ambiente.

E’ un comparto quantitativamente importante per il nostro Paese, di cui fanno parte l’agricoltura e le sue articolazioni (produzioni vegetali e animali, caccia e servizi connessi; silvicoltura e utilizzo di aree forestali; pesca e acquacoltura), le industrie alimentari delle bevande e del tabacco, il relativo commercio all’ingrosso e al dettaglio e i servizi di alloggio e di ristorazione. Nel suo insieme nel 2014 ha prodotto un valore aggiunto di 57,2 milioni di euro, il 4% del Pil nazionale, con il 5,5% degli occupati, due terzi nell’agricoltura e la rimanente quota nella produzione industriale di alimenti e bevande.

Ciò che è più rilevante, come dimostra il Rapporto della Fondazione Obiettivo Lavoro che sarà presentato a breve, è che le imprese del settore sono riuscite a ridurre gli effetti della crisi rispetto ad altri comparti, aumentando la loro competitività sui nuovi mercati globali. Nel 2014 l’export agroalimentare ha toccato infatti quota 5,3 miliardi di euro, con un aumento del 3% rispetto al 2013, al punto che, come spiega un recente rapporto di Fondazione Edison e Unioncamere, oggi “l’Italia ha la leadership europea per capacità di creazione di valore aggiunto per ettaro e numero di produttori biologici” ed è “in cima alle classifiche mondiali per valore esportato di una dozzina di produzioni agroalimentari”. Inoltre, nel suo complesso, gli indici di profitto dei suoi investimenti sono superiori a quelli degli altri settori. 

Come mai? Il motivo principale sembra il diffondersi dell’innovazione sostenibile ad opera di imprese esportatrici, a maggior valore aggiunto e ad high quality. Sempre la ricerca della Fondazione OL mostra che l’80% delle imprese ha realizzato innovazioni di prodotto e/o di processo tese a migliorarne le performance economiche, ambientali e/o sociali e che il 97% delle stesse intende introdurre innovazioni sostenibili nei prossimi tre anni.

Tali innovazioni si concentrano prevalentemente sui processi e le più diffuse riguardano l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili (il 74,6%), il riciclaggio delle risorse materiali (il 52,2%), l’introduzione di tecnologie in grado di ridurre i consumi energetici, i rifiuti prodotti e l’inquinamento atmosferico (il 65,7%) e i processi di dematerializzazione delle informazioni (il 55,2%).

A queste si affiancano le innovazioni di prodotto/servizio tra cui le più diffuse riguardano iniziative che riducono l’impatto ambientale del packaging (il 57% delle imprese) e la sostituzione di alcuni componenti inquinanti con materie prime caratterizzate da un più basso impatto ambientale (50,7%).

Non è comunque tutto rose e fiori. Il settore potrebbe dare di più, ma è ancora affetto da “nanismo” delle imprese che limita la loro efficienza e redditività, come mostra l’analisi dei bilanci contenuta nella citata ricerca della Fondazione OL. L’80,7% delle aziende impiega meno di una unità di lavoro, il 96,7% sono aziende individuali. Il 5% di aziende con fatturato sopra 100mila euro produce più della metà del valore aggiunto totale del comparto, impiegando da sola un quarto dell’occupazione complessiva.

Il Made in Italy alimentare ha comunque un tale appeal nel mondo che secondo i dati Coldiretti all’estero è falsificato un prodotto italiano su tre, per un valore complessivo di circa 50 miliardi di euro. La Cenerentola del nostro Paese sta diventando un’avanguardia che va difesa. E perché niente fermi la nuova onda verde italiana, speriamo che i temi sollevati da Expo non vadano in soffitta il prossimo 31 ottobre quando chiuderanno i padiglioni della fiera di Milano Rho.

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