Con la pronuncia del Tar Lombardia e con il decreto “interpretativo” sottoscritto sabato dal Capo dello Stato si sono creati i presupposti perché si possa condurre a fine la complessa vicenda della presentazione delle liste elettorali per le prossime elezioni regionali e le sue tormentate fasi intermedie. Trattasi anche di un “buon” fine?
Ragionare a botta tiepida sulla vicenda può essere un utile esercizio, non solo per chiarirne almeno in parte le logiche, gli interessi e le ideologie ma anche per entrare, adeguatamente attrezzati, in campagna elettorale.
Sulle scelte compiute dal collegio milanese vi è poco da dire: se è vero che il compito di verificare la correttezza delle firme spetta ad un organo ad hoc, composto secondo logiche di imparzialità e di competenza (i tre giudici nominati dal tribunale locale che, accertata la regolarità delle firme, ammettono la lista alla competizione), certezza del diritto e speditezza dei procedimenti elettorali vogliono che non si possa contestare, pro tempore, la decisione presa.
L’organo che ha ammesso la lista non può, in altre parole, modificare la propria decisione visto che la legge, dice il TAR, non conferisce a nessuno la legittimazione a impugnare la decisione presa. Questa interpretazione delle norme procedimentali (non, si badi bene, delle regole preposte all’accertamento della regolarità delle firme apposte) potrà non convincere ma ha una sua intrinseca logicità, funzionale allo svolgimento tempestivo del procedimento elettorale; ad abundantiam, il neo emanato decreto legge la assevera, e con ciò si conquista – almeno su questo aspetto – la piena legittimazione quale “decreto interpretativo”, cui può anche essere correttamente connessa la pur controversa efficacia retroattiva.
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Quanto al decreto legge, altro non v’è da dire se non quanto emerge dall’ampia motivazione che precede l’articolato, volta a individuare i presupposti oggettivi di necessità ed urgenza che lo sorreggono. Necessità ed urgenza non sono riferite solo a circostanze di fatto drammatiche o catastrofiche ma anche a situazioni non altrimenti rimediabili atte a compromettere la legalità costituzionale sostanziale, quali le presenti, in cui la competizione elettorale si sarebbe trasformata in un processo ad esito predeterminato.
Ma su questo aspetto mi pare viga un accordo pressoché unanime tra le forze politiche ragionevoli, che si sarebbero comunque rifiutate di vincere a tavolino. Si è giunti dunque ad un buon fine, ad una fine buona, coerente coi valori costituzionali che segnano le nostre società democratiche?
La risposta va per ora sospesa per rispondere ad un altro grande tema, ad un’altra obiezione che serpeggia, più o meno coscientemente, in tutti, fomentata dal clima culturale in cui siamo immersi e ci pervade, da quel giustizialismo – per chiamarlo nel modo più semplicistico possibile – che porta alla legge uno sguardo già viziato da pre-giudizio, già pre-giudicato.
E’, in altre parole, il grande tema della legalità, che si esprime con le accuse più o meno velate di leggerezza, superficialità, dilettantismo, scorrettezza, spregio delle norme, arroganza del potere di chi si considererebbe al di sopra della legge e sa di poter agire impunito, certo di essere comunque coperto dal potere dei propri simili, diversi dal comune mortale che subisce invece ogni genere di vessazione da chi applica la legge: i vigili urbani, gli ufficiali giudiziari, l’agente delle tasse, insomma il potere.
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E Dio sa quanti cittadini vivono esattamente questa sensazione di impotenza e di frustrazione. In altre parole, “noi” siamo sottoposti alla legge, “loro” la manipolano a loro uso e consumo. E in questo il partito radicale sarebbe l’unica difesa politicamente efficace quanto giuridicamente impotente data la logica – vincente – ora descritta.
Banalizziamo al massimo: ma non potevano stare attenti? ma non potevano arrivare puntuali? ma non potevano pensarci prima, controllare, verificare, scegliersi collaboratori adeguati, alleati politici sicuri, notai rigorosi, sindaci esperti, timbri rotondi ed efficienti etc…..? Risposta sottintesa: certo che potevano! Noi al loro posto avremmo fatto così.
Questo sembra essere – al di là del fatto contingente – l’unica posizione bipartisan, l’unica posizione vincente perché incontestabile. Tutto è vero, infatti, nessuno può negarlo. E allora?
Allora possiamo domandarci quanto siamo disposti ad immolare davanti a questo dio, il dio legale, il dio perfetto perché perfettamente aderente alla legge, il dio che tutti noi vogliamo essere o diventare, l’utopia della nostra efficienza inappuntabile che ci costruiamo quando vediamo, dell’altro, solo l’errore. Il paradosso di questo modo di vedere e’ che, pur dicendo cose tutte giuste, costituisce la negazione proprio del senso della legge. Non si tratta di contrapporre forma a sostanza (sarebbe pericoloso), o lettera ad interpretazione (sarebbe ingenuo).
Si tratta invece di usare una ragione, una ratio, che è poi il senso vero della norma, lasciata sì ai mutevoli fenomeni dell’interpretazione giurisprudenziale e dell’attuazione politica, ma ultimamente determinata da una struttura fatta di principi e di logiche che ne mantengono intatta la finalità mentre conservano coerenza all’intero ordinamento, non a caso un insieme “ragionato” di norme, talvolta anche in contraddizione tra loro, ma costruito e pensato per tutelare i beni della convivenza.
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Non potere (cioè violenza contingente che potrebbe ben usare anche della legge per affermare le sue non-ragioni) ma, appunto, ragione, che si mostra non solo nei presupposti ma anche nelle conseguenze.
La posizione radicale, da qualunque partito provenga – anche da partiti o persone che stanno dentro le coalizioni riammesse – in quanto ultimamente nihilista, non si cura di tutto questo ma di tutto usa per affermare sé nel suo disegno oppositivo (pour se poser, ils s’opposent – si diceva nel Sessantotto), disposta a distruggere elezioni e democrazia, partiti e persone, non per far rispettare la legge ma per piegare persino la necessità (più che condivisibile, che nessuno mette in dubbio) di rispettare la legge al proprio scopo, come è successo del resto per un istituto nobile quanto ormai ampiamente inutilizzabile quale è il referendum abrogativo delle leggi, previsto dalla Costituzione ad integrazione della democrazia rappresentativa, che i radicali appunto hanno usato come tribuna per procacciarsi visibilità e non per sviluppare, per incrementare, la democrazia diretta, il potere del popolo di far sentire la propria voce.
Se questa volta il gioco ha fallito, per la generale, quasi ovvia ragionevolezza di un sistema che ha per cardine valori che molti – e tra essi il Capo dello Stato – tendono a conservare, attenzione allora a discernere il giudizio ultimo che tratteniamo, un giudizio da cui nasca la capacità sempre più tenace di agire nel pieno rispetto delle regole e la stima per i valori che esse incarnano, restando aperti a imparare dagli errori di oggi una via verso una non impossibile giustizia e una esistente verità. Contro ogni nihilismo, da qualunque parte esso ci venga instillato.