La Commissione Europea di Bruxelles — ne ha parlato il Corriere della Sera qualche giorno fa — ha pubblicato un “Cultural and creative cities monitor”. Dall’indagine sulla vivacità, creatività e innovatività di 168 città di 30 Paesi, Milano esce alla grande: sul podio in molti dei parametri scelti, il capoluogo meneghino si scopre “capitale culturale”. Chi ci abita ha un sacco di segnali indicanti che effettivamente, soprattutto dopo l’imprevedibile successo di Expo, Milano è cambiata anche dal punto di vista della vita culturale: sono aumentati i turisti, si è incrementata e differenziata l’offerta di spettacoli, musica, mostre e quant’altro. Se ne può andare fieri e ricordare, come fa l’articolista, “un altro inizio secolo”, quello del Novecento. Anche allora una specie di Expo — L’Esposizione nazionale di Industria ed Arte del 1881 — aveva dato inizio ad un notevole sviluppo cittadino e Milano (superato lo shock delle tragiche manifestazioni popolari contro il rincaro del pane del 1898 represse con le armi: 80 morti e più di 400 feriti), si buttava nel secolo nascente con spavalderia e incrollabile ottimismo.
Ma c’era chi aveva il coraggio di guardare anche le zone d’ombra della città. Ad esempio i romanzi di Paolo Valera (1850-1926) che andavano a rovistare nei bassifondi malfamati o raccontavano degli abitanti in un enorme caseggiato perennemente esposti alla caduta nella miseria, nella criminalità o nella prostituzione. Oppure la coraggiosa analisi raccolta nel volume Il ventre di Milano (1888) che non si fermava a rovistare nei livelli infimi della società, ma cercava di mostrare come “vizi (e virtù) prosperino in ogni ceto sociale, non solo nel sottoproletariato urbano, ma anche nella borghesia produttiva, nell’aristocrazia povera e ricca” (Pietro Virtuani).
È ovvio, quindi, che anche nel comprensibile compiacimento per i risultati ottenuti dalla mia città, debba rimaner salda la vigilanza sul compito della cultura: essa deve avere gli occhi aperti su tutti i fattori; non può osannare le bellezze — che so — della affollatissima piazza Gae Aulenti, senza coraggiosamente guardare e spiegare anche le vie malfamate, i quartieri rovinati, i parchi violenti e l’umanità che li abita.
L’articolo del Corriere cita giustamente i “fermenti artistici” che caratterizzavano Milano d’inizio Novecento e li esemplifica con Boccioni e il futurismo. Si potrebbe ovviamente citare anche molto altro, ma quel che è interessante è ricordare che quegli anni erano dominati — nelle personalità più attente e profonde — dalla percezione di un imminente crollo, dall’angoscioso sentore che la sfolgorante città di successo stava per sprofondare in una immane catastrofe; i futuristi addirittura se lo auguravano come purificazione attraverso la guerra “igiene del mondo”. E infatti il crollo divenne realtà — in proporzioni tragicamente inimmaginabili — nella prima guerra mondiale.
È sempre sconsigliabile fare paragoni troppo stretti tra epoche storiche diverse, eppure l’odierno elogio di Milano “capitale culturale” non può essere solo origine di compiacimento che blocca. Perché il grande albero di una città continui a vivere, la linfa della cultura e dell’arte deve scorrere libera, senza indurirsi per servire nessun tipo di ideologia precostituita, senza rallentare nel suo slancio, neanche per fare bella figura a Bruxelles e scalare qualche altro gradino nelle classifiche.