Nel nostro paese il problema dei profughi sta raggiungendo toni oramai incontrollabili e solo tensioni ancora più gravi come l’attentato di Ankara o l’intifada palestinese distolgono la nostra attenzione da una tale emergenza per un giorno o due. Un’emergenza gestita fin dall’inizio in modo riduttivo, dettato verosimilmente dalle cornici di emergenza nelle quali gli operatori sono costretti tutt’ora a intervenire.
La riduzione del problema alla quale qui ci si riferisce non consiste in una sottostima del numero dei profughi o delle strutture in grado di ospitarli, quanto nell’assoluta negligenza della dimensione relazionale.
Papa Francesco raccomandava due anni fa di guardare negli occhi la persona che si aiutava con il tradizionale gesto dell’elemosina. “Ciò che Gesù ci insegna, innanzitutto, è che bisogna incontrarsi e, incontrando, aiutare … perché noi diamo loro una mano se li guardiamo con amore, se condividiamo il loro dolore o le loro ansie e i loro problemi”. La conclusione è radicale: “Lei ha gettato l’elemosina ed è andata via, non lo ha toccato. E se non lo ha toccato, non lo ha incontrato”. La relazione è interna a qualsiasi gesto di aiuto.
Poco più di un mese fa (il 6 settembre) Papa Francesco ha raccomandato ad ogni parrocchia di accogliere una famiglia di profughi: un numero estremamente ridotto. Non sembra che un simile atteggiamento sia stato sufficientemente valutato, eppure è direttamente collegato all’affermazione fatta due anni prima. Una famiglia di profughi per parrocchia comunica simultaneamente con un gruppo numeroso di famiglie e con ciascuna di queste intrattiene una relazione particolare. Ed è proprio l’insieme di queste relazioni a garantire una convivenza che ha lo spessore di un vero e proprio incontro, che è generativa di vita e di arricchimento per tutti. E’ proprio in virtù di questa serie di relazioni possibili che un momento di dolore e di crisi, successivo a una tragedia, può essere alla base di una vita nuova della quale ogni incontro costituisce potenzialmente la promessa.
Tempo fa un mio caro amico che da anni si dedica, tra le molte altre cose, alla colletta del Banco Alimentare, lamentava come, se non altro per il carico di lavoro, qualcuno dei volontari meno esperti finisse per far mettere in fila gli assistiti e consegnare loro il pacco di beni alimentari, come se questa forma di comunicazione potesse essere valida in sé. La logica assistenziale propria della nostra tradizione istituzionale vede infatti prevalentemente il soggetto come portatore di bisogni materiali, ma non sembra affatto contemplare la necessità della relazione come momento centrale ed essenziale di ogni scambio reale.
Eppure è abbastanza evidente come sia proprio la mancanza assoluta di relazioni a generare i peggiori disastri. Qualsiasi prossimità non adeguatamente accompagnata da forme di relazione e di scambio si rivela sempre a rischio di incomprensione prima e di conflitto poi.
Lo stesso accade in contesti che sono meno di emergenza e più inseriti nella vita ordinaria. Qualsiasi volontà di inserimento scolastico, sostenuta dalle più rigorose volontà di impegno, conosce problemi insormontabili quando ci si imbatte nello scoglio della lingua: vero e proprio capitale indispensabile per sviluppare quella serie essenziale di relazioni che, sole, assicurano un autentico inserimento.
La dimensione della relazione viene costantemente lasciata in disparte, ma in realtà è parte integrante della soluzione di ogni problema reale. Siamo tutti profondamente strutturati da relazioni significative, sono queste a decidere lo spessore dell’impegno come la volontà dell’agire. Non ci sarebbe nessun problema dell’immigrazione se le relazioni venissero curate con attenzione; sarebbe molto più semplice isolare i casi problematici ed implementare il capitale di buona volontà che alberga tanto in chi arriva come in chi soccorre ed assiste.
C’è qualcosa quindi di logicamente perverso nella volontà di non considerare la dimensione relazionale, di limitarsi a valutarla come un complemento secondario, quando invece costituisce una vera e propria unità di valore, utile ad accumulare quella reale ricchezza che oggi viene definita con il termine di “capitale sociale”. Papa Francesco, nella sua linearità, lo ha avvertito e ne ha fatto un principio di pragmatico realismo. Un tale principio può valere anche al di là dell’accoglienza dei profughi, perché nessuno di noi può realmente fare a meno dell’essere guardato, nessuno di noi può privarsi di questa lunga serie di relazioni significative che lo costituiscono.