Le omelie di Papa Francesco a Santa Marta diventano sempre di più una vera e propria catechesi popolare, semplice ma universale. Ieri il Papa è tornato a parlare della fede. Mi soffermo sull’incipit. Questi brevi discorsi sono pronunciati a braccio e per coglierli appieno, più che leggerne la trascrizione, è conveniente cercarne in rete la registrazione audio. Eccone comunque la prima parte: “Chiunque rimane in Dio, chiunque rimane nell’amore vince il mondo e la vittoria è la nostra fede. Da parte nostra, la fede. Da parte di Dio, per questo “rimanere” lo Spirito Santo, che fa questa opera di grazia. Da parte nostra la fede. È forte! E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede! La nostra fede può tutto! È vittoria! E questo sarebbe bello che lo ripetessimo anche noi, perché tante volte siamo cristiani sconfitti. Ma la Chiesa è piena di cristiani sconfitti, che non credono in questo, che la fede è vittoria; che non vivono questa fede, perché se non si vive questa fede, c’è la sconfitta e vince il mondo, il principe del mondo”.
Questa parola del Papa, pronunciata con fermissima mitezza (sentire la registrazione audio) è un paradosso. È “il” paradosso. Non so dire cosa accada negli altri continenti, ma qui da noi, in Europa, se c’erano degli eserciti della cristianità, ebbene sono in rotta disordinata. Le battaglie sui valori etici sono perse una dopo l’altra. Il popolo, ricco o no, volta le spalle alla Chiesa. Banche cattoliche, partiti cattolici, cultura cattolica sono un ricordo del passato, non sempre positivo. La scuola è un deserto e molta di quella confessionale pure. E il Papa ci parla di vittoria?
Evidentemente, si riferisce a qualcosa di diverso. Per la mentalità comune d’oggi i “vincenti” sono quelli descritti da una bella canzone di Claudio Chieffo: i furbi, i ricchi, i forti e i violenti. È chiaro che la vittoria di cui parla il Papa non è la loro vittoria. Ma è anche chiaro che la vittoria dei potenti è falsa, perché nel giro di qualche anno (oggi le procure sono assai veloci e così pure le malattie, sia detto senza augurarne a nessuno né delle prime né delle seconde), li ritroviamo nella polvere o in strada o in corsia. Ma non è questione di rinunce moralistiche. Queste sembrerebbero piuttosto abiti da “cristiani sconfitti”. Non è l’etica dei perdenti sferzata da Nietzsche. Non è l’apologo della volpe e l’uva. È evidenza dell’esperienza: sesso denaro e potere, secondo la sintesi di Eliot, tradiscono.
E deludono durante il gioco, non solo nel risultato finale (parlando di vittoria e sconfitta è lecita la metafora calcistica). San Giovanni e San Paolo parlano di vittoria che ha vinto il mondo, non che vincerà. Navigando in rete mi sono imbattuto in una lezione fatta alla Fraternità di Comunione e Liberazione nel 2008, intitolata proprio “questa è la vittoria che vince il mondo: la fede” nella quale Julián Carrón pone con forza il tema del distacco tra esperienza e ragione, come origine della debolezza della fede del nostro tempo. Ed infatti è la ragione che dimostra che il mondo non vince, nel senso che non “corrisponde a tutte le esigenze del nostro essere”.
Ma a riconoscere questo ci potrebbero arrivare tutti. Sarebbe possibile, con un po’ di realismo. Però, dal negativo al positivo c’è un abisso. Quello che dice il Papa è di più. La fede come vittoria è una promessa enorme, bellissima, ma anche vertiginosa. Affidarsi ad un Altro davvero è un rischio. Ragionevole, ma mozzafiato. Esige compagnia, guide sicure e povertà. La presenza di questo Papa assume sempre più il carattere di profezia, tanto è adatta al nostro tempo e al nostro cuore. Piano piano si comincia a capire che il richiamo a San Francesco, che è stata la sua prima parola dopo l’elezione, era molto, molto di più che appena una questione di soldi e potere.