Ripensare il Paradiso?

“Ripensare il Paradiso”. Questo era il titolo della copertina del Time della scorsa settimana. Uno spaccato sull’irreligione occidentale e sui bisogni dell’uomo. FERNANDO DE HARO

“Ripensare il Paradiso”. Questo era il titolo della copertina del Time della scorsa settimana. La presentazione dell’ampio servizio delle pagine interne era molto esplicito: “Il Paradiso non può attendere”. Nello spazio di sei condensate pagine veniva riportato, con un’ampia spiegazione, il dibattito su come le diverse chiese concepiscono la vita dopo la morte, il rapporto tra Dio il mondo e il significato della resurrezione.

Un buon ritratto, attraverso la discussione teologica, del rapporto che gli americani hanno con la realtà. Con i suoi limiti evidenti: una tradizione cristiana che è esplosa in mille pezzi e che si è già trasformata in self-religion e che lascia quasi tutti alla mercé di un soggettivismo e un individualismo terrificanti. E con la sua grandezza: un’apertura lontana dal cinismo.

L’85% degli americani, secondo un sondaggio Gallup, crede nella vita dopo la morte. In Spagna, come nel resto del Vecchio Continente, le statistiche portano il risultato alla metà. Secondo l’Indagine sui valori degli europei, il 42% di loro crede nel Paradiso. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di una percentuale bassa dato che secondo il Centro di indagini sociologiche il 72% degli spagnoli si dichiara cattolico. Il fatto è che solamente il 15% si reca con frequenza a messa. Cosicché il tasso di coloro che crede nel Paradiso è alto, nonostante la grande secolarizzazione.

Il Paradiso è una forma concreta di esprimere il desiderio di eternità, la permanenza di un senso religioso concreto in un aspetto così essenziale della vita qual è la morte.
Stupisce il fatto che con troppa frequenza la predicazione e la presenza pubblica della Chiesa non sappia cogliere e decifrare questo desiderio e continui a insistere in modo particolare sulle questioni morali. I battezzati hanno certamente bisogno di una formazione adeguata in questo campo. Ma spesso ci si dimentica che la morale è una tensione e non una coerenza. In un mondo scristianizzato brandire una morale massima ed estendere ampiamente quella che prima si chiamava “morale naturale” non ha senso.

La questione è particolarmente rilevante nell’ambito dell’omosessualità. La nostra è una cultura che sta perdendo rapidamente il valore della differenza e della complementarietà tra i sessi. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. È un problema con profonde radici antropologiche. Ma senza affrontare queste radici l’insistenza sui problemi morali o giuridici sarà come cercare di impedire l’affondamento del Titanic con dei salvagente per bambini.

Il cammino della Chiesa è sempre stato il cammino dell’uomo, di qualunque uomo in qualunque situazione si trovi. Il suo cammino è soprattutto quello dell’uomo che si sente ferito, anelante. Di chi sta aspettando un momento come quello che ha descritto qualche giorno fa Antonio Muñoz Molina nella sua rubrica su El Pais: “Improvvisamente c’è qualcosa dove prima non c’era nulla. Da un momento all’altro la desolazione si è trasformata in fervore e la sterilità è diventata stupore”. Si chiama avvenimento. La parola che meglio definisce il cristianesimo.

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