Il genio del Gene

Gene Gnocchi, più noto per la sua attività come comico, ha pubblicato un libro che dietro l'apparente humor rivela il dramma dell'uomo moderno. Ne parla GIORGIO VITTADINI

“Il comico è il tragico visto di spalle” diceva il critico e saggista francese Gérard Genette. Ed è una caratteristica dei grandi comici celare dietro la risata una profonda tristezza. Quando uno “sente” così tanto, difficilmente trova qualcosa all’altezza del suo “sentire” e se ne va in giro goffo, fuori posto, malinconico, dicendo quelle cose che gli altri non hanno nemmeno il coraggio di pensare. Come Piero Schivazappa, in arte Rudi Ortolani, detto anche Rudi O’, il protagonista dell’ultimo libro di Gene Gnocchi, Cosa fare a Faenza quando sei morto (Bompiani).

In un crescendo incalzante di paradossi e non-sense, con l’humour apparentemente noir che lo ha sempre caratterizzato, l’autore dà voce a un uomo qualunque in procinto di buttarsi dall’acquedotto di Cervia per sottrarsi alla stupidità del quotidiano.

Si dipana così per 150 pagine un monologo ironico, travolgente ed esilarante di chi subisce, quasi senza esser capace di reagire, le notizie inutili, senza senso e nesso di cui ci ammorbano i mass media. Il protagonista ha accumulato un’overdose di informazioni, di cui alla fine non sa davvero cosa farsene. Il risultato: “troppo piena la testa di cose, che tutte dovevano starci a forza: scandali, nuovi fenomeni del canto, del ballo, della corsa a ostacoli, del ping pong, uno che aveva inventato un nuovo social, una nuova App, è solo un ammucchiare la roba senza uso né consumo”.

Cosa sgomenta? L’ennesimo programma di Gilletti su padre Pio, il posto in classifica assegnato da Forbes a Gianni Pelletti detto Mario, operaio della Fiat (3.791.486.567°), la nuova guida al sesso per anziani scritta da Jane Fonda con la traduzione italiana di Marta Marzotto, l’iphone4 che secondo il Sole24ore sott’acqua attira le cernie, l’ultimo libro di Camilleri su Montalbano, dopo il quale Montalbano si rompe e scrive un libro su Camilleri intitolato Lasciame repusà. Per arrivare all’invocazione di una donna “impavida e fiera” poco prima di precipitare in un dirupo: “Non pensate a me, pensate piuttosto alle riforme costituzionali!”. E domande inquietanti: perché i Pooh nel 1968 entrarono in studio in cinque per incidere Piccola Katy e ne uscirono in quattro?

Se l’è cercata lui, nessuno gliel’ha imposto, “la vita intesa come tempo concesso andava riempita tutta di interessi, di sapere, di conoscere…”, ma il risultato è uguale: i conti non tornano più.

E’ un’inondazione di notizie in cui dimenticare se stessi, quell’“io”che pure, per dirla con Leopardi, “si staglia come torre in solitario campo”, in cui essere omologati in ogni nostro desiderio (secondo la profezia di Pasolini) e senza avere neanche il coraggio di cantare come i Nomadi e Guccini che Dio è morto.

Per questo, nel mezzo di questo assurdo e comico quotidiano, senza alcuna “sottile linea rossa”, nasce improvvisa una profonda tristezza che spezza l’ironia: “Mi sento che non ho più la forza di proseguire questa vicenda insensata, non ho più niente da aspettare. Non c’è più niente che mi prenda il cuore”. E’ per questo giunge a dire: “C’è stato un momento preciso, e io so quando, in cui ho pensato che sarei sparito dal mondo, che avrei fatto di tutto per non esserci mai stato”.

In un grido disperato che ricorda quello del protagonista dei Buddenbrook di Thomas Mann quando, di fronte al turbinio della vita che lo avvolge, si auspica di tornare goccia nell’oceano per avere un po’ di pace. Forse questo “circolare di fatti chiusi nel loro esserci” è l’avverarsi dopo cinquant’anni di un’altra profezia, quella del dissidente russo Andrej Sinjavskij: “La quantità delle nostre nozioni e informazioni è enorme, ne siamo sovraccarichi, senza che esse cambino qualitativamente… Confrontiamo adesso questi pretesi orizzonti con lo stile di vita dell’antico contadino, che non si spingeva mai al di là del suo praticello. Noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo… Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro”.

Escludere la trascendenza dalla vita, come tanti “profeti della modernità” ci avevano preannunciato, non ammettere cioè la possibilità che quello che ci appare sia segno di qualcosa di più profondo, smettere di cercarlo come bambini, fa sì che la voglia stessa di vivere diventi sempre più debole, il pensiero si annebbi e si annichilisca, come succede a Schivazappa.

In tutto ciò, c’è chi si sente progressista e per questo non ha più “nemmeno voglia di alzare la voce”: subisce senza sperare nella rivincita acquietandosi in un paraculismo gregario. Ci sono poi gli esperti che compilano statistiche sul risveglio della religione senza accorgersi di quanto i più, insieme a Schivazappa, ormai pensano: “Speravo di trovare una luce, una strada, un clic che mi aprisse il mondo e me ne svelasse il perché. Ero un deficiente. Come se dal mondo potesse venire un senso che fosse altro dal transitare e dall’andarsene senza traccia”. C’è chi si professa cristiano pur pensando, e senza sentirlo contraddittorio, che “l’imponderabile non esiste più, tutte le combinazioni sono già sperimentate e nemmeno raccontabili”.

Il Gene senza sigle no, il Gene resiste, il Gene si ostina a fare il comico intelligente, e con la sua ironia e la sua disperazione quotidiana s’interroga e aspetta: “cerco negli sguardi – soprattutto negli sguardi dei bambini piccoli – un fondo di malinconia e continuo a chiedermi se potranno ritrovarselo da grandi. Mi piacerebbe di si. Ma forse è soltanto che mi auguro che sentano da subito questo disagio di stare al mondo e che sappiano come stare o come andarsene”.

Una malinconia che non è sogno ma presagio di una felicità sfiorata da uno sguardo alle cose semplici amate, soffuse di un mistero discreto. “Le volte a cui penso se sono stato felice mi viene in mente l’argine del Po, quando giocavo a calcio. Era l’attimo prima di cominciare a vivere, quando tutto sembrava ancora possibile…”. E così, dal mondo delle idee a quello dell’esperienza, tutto cambia. Forse, per tornare a sperare basta dimenticare le notizie e lasciarsi travolgere dalle esperienze.

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