Tra la grande crisi economica mondiale ancora in corso, la concorrenza dei paesi emergenti, la progressiva crescita dell’uso di robot nella produzione e l’indebolimento dei corpi intermedi, il mondo del lavoro lotta ogni giorno per non infragilirsi o disgregarsi. Per guadagnare uno stipendio appena decente, in molti sono costretti a fare due o anche tre lavoretti correndo da una parte all’altra e con poco tempo da dedicare al resto della vita. C’è chi parla un po’ asetticamente di “discontinuità”; chi mette l’accento sull’inevitabilità e ultima positività dei cambiamenti e parla di “flessibilità”; chi è più sensibile al lato drammatico della vicenda, continua invece a vederla come “precarietà”.
Come se non bastasse, c’è un paradosso: accanto alla precarietà e a una forte disoccupazione soprattutto giovanile, ci sono aziende che non trovano persone qualificate per i loro lavori, dai camerieri che sanno l’inglese nei centri turistici del Sud, a molti tipi di operai specializzati, a ingegneri e altre mansioni altamente qualificate.
Vent’anni fa è stato introdotto in Italia il “lavoro in affitto”, più correttamente “lavoro somministrato”, quello in cui il lavoratore è assunto e pagato da un’agenzia ma presta servizio per un soggetto terzo. Questa forma contrattuale otteneva la sua prima cittadinanza in un sistema italiano di relazioni sindacali ancora rigido, cauto nel mollare gli ormeggi politico-culturali del secolo precedente.
Il paese, che alla fine degli anni 90 lottava per rendere credibile il suo ingresso nell’euro, sapeva di doversi misurare con la flessibilità contrattuale, richiesta da mercati sempre più competitivi e globali. Nuove sfide chiamavano le imprese del Made in Italy a cercare nuova produttività e nuova “occupabilità”.
Il nostro paese dovette accettare quella sfida, rischiando spesso di tradire una democrazia del lavoro conquistata a caro prezzo e non potendo evitare di misurarsi con l’esigenza di innovare la capacità di rappresentanza delle parti sociali. In gioco c’era la necessità di capire la sostanza dei nuovi lavori in nuove imprese, al fine di elaborare figure contrattuali diverse e nuovi principi come quello di “pari trattamento”, oltre che creare nuove aziende, come sono le odierne agenzie per il lavoro.
“E’ stata una svolta non solo per l’Italia, che con quell’intesa avviò il lungo balzo in avanti del suo mercato del lavoro, verso una frontiera che non tutti i paesi sviluppati hanno ancora raggiunto”. Tiziano Treu, padre di quella riforma, ha voluto ospitare al Cnel — che ora presiede — la presentazione di una ricerca-bilancio condotta da Fondazione per la Sussidiarietà e Crisp-Università Bicocca. Il workshop — cui hanno partecipato fra gli altri il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan, il segretario generale dalla Felsa Cisl Mattia Pirulli, il presidente di Adapt Emmanuele Massagli — si è svolto nel giorno di apertura ufficiale della nuova legislatura che avrà al centro una sfida fondamentale: il rilancio dell’occupazione.
Oggi come allora l’Italia “fondata sul lavoro” si ritrova a dover individuare nuovi modi per declinare il dettato costituzionale: costruire ogni giorno la democrazia attraverso lo sviluppo e affrontare le crisi con le risorse della cultura politico-economica e dell’esperienza maturate.
“E’ innegabile che l’intesa sul lavoro somministrato abbia caratteristiche di sperimentalità e questo è un fatto positivo: in una materia del genere è sicuramente necessario attuare sperimentazioni senza irrigidire tale fenomeno all’interno di forme giuridiche che potrebbero subire un processo di obsolescenza assai accelerato”. Lo scrisse Marco Biagi commentando un pionieristico accordo del 2000 fra la Federazione Cdo-Noprofit e Alai-Cisl, Cgil-Nidil e Cpo-Uil. Due anni dopo, Biagi pagò con la vita il suo impegno riformista, ma nel frattempo il lavoro somministrato aveva già vinto la sua battaglia: aveva contribuito a un incremento del tasso di occupazione di 4 punti percentuali fra il 1997 e il 2003, mentre il picco 2007 degli occupati in lavoro somministrato (poco meno di 600mila) è stato nuovamente raggiunto e superato oggi allo sbocco della lunga recessione.
L’allerta rimane alta, visto che in Italia la globalizzazione ha portato nuovi colossi che chiedono lavoro iper-flessibile e nei fatti ipo-tutelato (vedi caso Foodora). Il lavoro somministrato conferma che la sfida della tutela, della corretta valorizzazione, e da ultimo della dignità stessa del lavoro, deve oggi più che mai essere affrontata e vinta. Fra economia digitale e gig economy, non si può abbassare la guardia di fronte a forme contrattuali che rischiano di essere fuori dal mercato, in ambiti regolati dallo sfruttamento.
Ma cosa insegna all’Italia del 2018 il caso — di successo — di una forma sindacale di tutela, specificatamente dedicata al lavoro somministrato, come è Felsa-Cisl? La ricerca FpS-Crisp rammenta anzitutto che la nuova figura contrattuale fu inizialmente utilizzata soprattutto da imprese manifatturiere di dimensioni grandi e medie: questo dimostrò che le agenzie di lavoro interinale potevano essere un buono strumento per tutelare il lavoro anche nei confronti dei nuovi colossi imprenditoriali e, nello stesso tempo, venire incontro alle loro esigenze di flessibilità.
Dallo studio emergono comunque altre due indicazioni significative. La prima è che il lavoro somministrato ha attecchito strutturalmente anche nelle imprese di dimensioni minori; la seconda è che fra i somministrati non manca ormai una quota visibile di over 50.
Il dato più importante, però, è l’emergere di un nuovo modo di fare sindacato che consiste nell’accompagnare il lavoratore lungo un percorso meno lineare che in passato. Ma c’è di più. Oggi, i giovani disoccupati e precari fanno fatica a concepirsi come parte di un soggetto sociale. Insoddisfazione, rabbia e bisogni, vengono al massimo espressi individualmente sui social network, ma non spingono ad aggregarsi, a costruire ambiti reali in cui organizzare la propria difesa e far pesare i propri diritti. Lo sciopero che ha coinvolto qualche tempo fa i lavoratori di Amazon a Piacenza è infatti un’eccezione ottenuta a fatica. In tale contesto, l’associazione sindacale deve intercettare questo tipo di lavoratori, il più delle volte inconsapevoli della possibilità di essere tutelati.
Nell’operato di Felsa-Cisl, in particolare, ciò che sta riscontrando grande successo è un approccio personalizzato, a partire dal dialogo e dal confronto, innanzitutto umano, con il lavoratore. Un modo flessibile, aperto alla gestione di situazioni impreviste con proposte innovative e con posizioni non ideologiche. Anche gli strumenti messi in campo sono variegati: certamente c’è la trattativa sindacale con datori di lavoro che, soprattutto nel caso di multinazionali, sono spesso restii anche solo a sedersi con i sindacati. Ma fondamentali sono anche la proposta di percorsi formativi per la riqualificazione, per l’orientamento, per l’informazione sul ginepraio dei contratti.
Lo scopo non è quello di tenere il lavoratore nel precariato, bensì costruire condizioni di nuova “impiegabilità” al mutare del mercato del lavoro; stabilizzare l’occupazione; migliorare i contratti; equiparare le condizioni fra lavoratori in somministrazione e lavoratori diretti dell’azienda: un percorso che ha generato nel tempo un moderno welfare bilaterale e il consolidamento di una rappresentanza reale tra i lavoratori.
Un sistema produttivo come quello italiano ha dato dunque nuova prova di saper imparare: di credere nei nuovi strumenti del mercato del lavoro, di non smettere di testarli ovunque sia possibile, soprattutto in fasi di ciclo negativo. E’ certamente faticoso smontare e rimontare all’infinito il lavoro, la sua natura perennemente mutevole, i problemi posti dall’innovazione tecnologica, economica, giuridica, sociale: ma non esistono altri modi per generare lavoro vero, capace di assicurare al lavoratore un reddito. Il lavoro somministrato (italiano) e il sindacato che tutela questi lavoratori, vent’anni dopo, sono lì a dimostrarlo: anche a chi si accinge a governare l’Italia nel 2018.