Queste settimane ci trasmettono un’urgenza che difficilmente possiamo eludere. Come italiani, infatti, cerchiamo di uscire da uno stallo politico e civile lungo cinquanta giorni e come singoli, invece, ciascuno di noi ha di certo uno stallo dal quale vuole uscire, che sia nel matrimonio o nel dolore, nell’amicizia piuttosto che nella malattia. Nel mezzo della battaglia è normale guardare verso le montagne per vedere se arriva un qualche aiuto. Lo fanno i combattenti del Signore degli Anelli, il romanzo di Tolkien, attendendo l’intervento miracoloso del saggio Gandalf, lo facciamo noi sbirciando i molto più modesti colli di Roma, dal Vaticano al Quirinale, sperando che dal Papa o dal nuovo presidente della Repubblica arrivino tutte le soluzioni di cui abbiamo bisogno per la crisi e per la vita, e lo fa perfino il Salmista quando si chiede: “Alzo gli occhi verso i monti. Da dove mi verrà l’aiuto?”. Tutto questo attendere si inserisce in una lunga tradizione umana che da sempre, quando è autentica, cerca di vivere in una sorta di posizione vertiginosa, in equilibrio tra il desiderio di una risposta alle domande dell’esistenza e la consapevolezza che non qualunque risposta andrà bene perché il cuore dell’uomo ha delle esigenze ben precise. Il potere ha sempre giocato su questa vertigine, anche se non sempre i cristiani ne sono stati consapevoli. Nel passato, infatti, il potere è stato associato prima ad un’ideologia culturale poi ad un’aggregazione politica, asserendo sempre con determinazione che esso fosse una forza fuori di noi, da combattere tutti insieme con i nostri ideali. Negli ultimi anni infine, complice l’esperienza e gli eventi della storia, è finalmente chiaro che il potere è qualcosa che è dentro di noi e che tende ad identificare in un dato finito e determinato l’oggetto dell’attesa del nostro cuore. Così, non appena si affaccia un nuovo amore o una suggestiva emozione, siamo pronti a tuffarci tra quelle braccia eliminando tutto quello che può esserci in qualche modo di ostacolo, così, quando spunta un nuovo partito o la possibilità di un governo, eccoci schierati in prima linea a contestare o ad applaudire.
Ma “il mio aiuto – continua in modo spiazzante il Salmo di prima – viene dal Signore”. Non c’è niente, nemmeno il Presidente della Repubblica o un amore o un partito, che possa davvero rispondere alla crisi che incalza o al dolore che mi tormenta. Non la politica né l’ideologia riusciranno a dar pace al nostro cuore, ma solo ciò per cui quel cuore è fatto. Per questo la vera svolta sta nella Persona. Non perché ci sia bisogno di una nuova ondata di individualismo o di ostentata forza di volontà, ma perché nella Persona c’è una misura, un criterio, che va oltre l’individuo e che tende al tutto, all’edificazione del Bene. La tradizione cristiana a partire da Boezio definisce infatti la Persona come “individua substantia rationalis natura”, non limitando il concetto di Persona a quello di individuo, ma sottolineando la natura, l’essenza, della Persona: il suo essere razionale, ossia connessa, legata, all’Infinito. Sta in questo legame l’identità vera dell’Io. È in questa appartenenza originaria che si gioca tutto. Per questo motivo il risveglio della Persona è l’inizio della Rivoluzione: perché ogni cosa, dalla donna al denaro, dall’orgoglio al potere, appare finalmente per ciò che è, ossia un’ombra di ciò che davvero soddisfa il cuore. Ed è così che l’uomo inizia ad essere libero, capace di prendere decisioni che non nascono dalla paura di perdere la vita, ma dalla certezza che la vita vera ci attende sempre alla fine di ogni cammino. Come nel medioevo era l’edificazione della Cattedrale ad indicare la libertà e il desiderio di un popolo, così oggi è l’Io la vera Cattedrale che ognuno di noi può e deve edificare. Certi che il nostro aiuto non viene dalle cose grandi della vita, ma dal Signore. Che ha fatto cielo e terra. E che, attraverso il cuore dell’uomo, sempre potrà liberare ognuno di noi, e la stessa Italia, dallo stallo in cui la nostra vita civile e morale si trova.