«Non ho tempo per pregare, vorrei tanto, ma sono sopraffatto dalla quantità di cose da fare». Il rapporto tra preghiera e azione è uno dei temi più ricorrenti che, come sacerdote, mi vengono sottoposti. È una questione che riguarda tutti: basta vedere quante persone si rivolgono alle filosofie orientali che insegnano delle tecniche di preghiera o di meditazione.
Quelle persone cercano sostanzialmente un punto di equilibrio tra il lavoro e la cura di se stessi. Percepiscono un disagio nel vivere di solo lavoro e cercano in qualche modo una fuga, o, nel migliore dei casi, un baricentro nella propria vita.
Devo pregare di più? O devo “fare” di più? Posta in questi termini, la domanda non ha soluzione. Il vero rapporto da cercare non è tra preghiera e azione, ma tra preghiera ed essere.
L’uomo è chiamato all’unità nella propria vita e il peccato originale ha spaccato proprio questa unità. Spesso il problema sta nel fatto che non capiamo la differenza tra “le preghiere” e “la preghiera”.
San Benedetto conosceva molto bene questo malinteso e così ha fondato dei luoghi in cui l’uomo potesse essere educato a quest’unità originaria dell’essere umano. Un uomo può vivere dualisticamente sia la preghiera sia il lavoro: per questo è necessario recuperare il senso vero delle parole «preghiera» e «azione». Sono due parole che trovano entrambe la loro verità non nel rapporto tra di loro, ma nel rapporto con Dio.
La vita si esprime nella sua verità solo quando l’uomo vive il rapporto con Dio che lo costituisce. Al di fuori di questo rapporto, sia la preghiera sia l’azione sono modi in cui l’uomo si aliena, cioè non è più se stesso.
Così ebbe a scrivere la giovane Etty Hillesum nel suo diario, poco prima di essere deportata in campo di concentramento: «Vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna, ma neanche viceversa». È una descrizione magnifica della lealtà verso la vita che questa ragazza ha potuto raggiungere inginocchiandosi di fronte a Dio.
L’uomo per vivere ha bisogno di respirare, e credo che il paragone più efficace che possiamo fare per sottolineare la necessità della preghiera sia proprio quelle del respiro. Vivere e respirare sono uno stesso atto, e non a caso la Scrittura mette sempre in relazione la vita con il “soffio vitale” impresso da Dio.
Pregando impariamo a poco a poco che il segreto dell’esistenza è la fedeltà, non il successo.
E questa fedeltà si impara proprio attraverso il respiro della preghiera che rende ogni nostro gesto rapporto con Colui che ci fa. Non è il febbrile diffondersi intorno a sé che ci fa essere fecondi, ma la fedeltà al Signore, come papa Benedetto XVI e papa Francesco così grandiosamente e umilmente ci testimoniano.