Quando la gioventù è vecchia

I Rolling Stones compiono cinquant’anni. E' normale affezionarsi ai simboli della gioventù, ci spiega LUCA DONINELLI, ma il vero problema è che questi simboli sono terribilmente vecchi

La notizia è che i Rolling Stones compiono cinquant’anni. Qualcuno si ricorderà di quel ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones e poi finì a morire nel Vietnam. I due celebri gruppi si dividevano il mondo, erano le due facce della luna, quella chiara (Beatles) e quella scura (Stones). E’ strano come, nella storia, il lato oscuro delle cose duri più di quello chiaro. Le città dei morti dell’antichità si sono conservate meglio di quelle dei vivi, i poeti maledetti sono più amati di quelli laureati, e gli Stones esistono ancora, mentre i Beatles resistettero pochi anni. Troppo genio, troppa invenzione, troppa luce. Alla fine vince il vecchio rock’n roll.

Un’altra cosa strana, più personale, è che col passare degli anni mi accorgo di amare sempre meno i Beatles e sempre più gli Stones. Sarà che i Beatles li so a memoria e non ho più nulla da scoprire. Ma forse c’è un’altra ragione, più interessante. E’ una ragione romantica. Per tutti noi questi simpatici vecchietti, che sembrano una caricatura da Muppet’s Show mentre in realtà riescono ancora a produrre ottima musica, da mezzo secolo sono il simbolo – romantico – della Trasgressione, dell’Irregolarità, della scorrettezza politica, in una parola: dell’eterna, selvaggia gioventù. Tra le loro canzoni quella che preferisco è Sympathy for the Devil, scritta (pare) sulla suggestione de “Il Maestro e Margherita”. La amo soprattutto per il coretto: mi ricorda un branco di lupi la cui voce ci giunge dal folto di una foresta senza strade, senza segnaletica, senza polizia, senza accademie, senza governi.

E’ comprensibile che, invecchiando, ci si affezioni ai simboli della gioventù. Il problema è che i nostri sono simboli vecchi. Terribilmente vecchi. E che la nostra idea di gioventù ha almeno cinquant’anni, proprio come gli Stones. Molti segnali ci dicono che spesso noi viviamo più nel passato che nel presente, fino all’assurdità che la nostra stessa idea del presente fa parte del passato – ed è un’assurdità più che possibile, se la nostra idea del presente, del qui e ora, non si aggancia a qualcosa di reale, di centrale, che sta avvenendo qui e ora.

Basta pensare allo sgomento che ci prende quando visitiamo paesi e società la cui età media è enormemente più bassa della nostra, come in Africa o in Medio Oriente, e soprattutto in Israele e in Palestina, dove il presente è una guerra senza fine che consegna l’intera società a bambini, o poco più. Basta pensare al sommo disinteresse della nostra società per l’Università, che insieme al Lavoro dovrebbe costituire la sua preoccupazione principale, visto che è o dovrebbe essere l’Università a formare l’ossatura di chi presto guiderà il paese.

Osservo, di passaggio, che lo smarrimento di un’idea viva della gioventù comporta la perdita dell’idea di autorevolezza. Lo spettacolo di una società vecchia e senza figure autorevoli non è poi così lontano dai nostri occhi italiani. Solo “qualcosa che sta accadendo ora” può riportare i nostri orologi al presente, riformulare le nostre idee invecchiate, le nostre immagini sbiadite o imposte dai media, che tutto possono fare fuorché inventarsi un avvenimento vero, una presenza vera.

Altrimenti il rischio, tutt’altro che lontano, è quello di perdere completamente l’orizzonte sulle giovani generazioni, sulla loro realtà concreta, e di farne così la carne da macello della globalizzazione.

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