Non è difficile immaginarsi quale stato d’animo abbia dominato le settimane succedute all’esaltazione del 25 aprile 1945. La fine della guerra e del fascismo avevano fatto scoppiare l’entusiasmo, la voglia di far festa, di cantare. Ma adesso, passata l’euforia, ci si rende meglio conto di essere circondati di macerie fisiche, morali e sociali. Bisogna rifare le case, le chiese, le fabbriche, le scuole, ma anche ricomporre le famiglie e le amicizie. E poi c’è da ricostruire – operazione ancora più difficile – la convivenza civile: non lasciarsi andare alla vendetta, provare a rimettere insieme gruppi, associazioni, partiti, cooperative che il regime aveva ingabbiato e la guerra quasi annullato. C’è, insomma da rimboccarsi le maniche ed ognuno sa che deve fare la sua parte.
Forse mai come dopo l’immane catastrofe di una guerra risulta chiaro che la risorsa alla fin fine decisiva per riprendere è una molla che sta dentro l’intimo di ogni persona. Anche quest’anno vivremo le celebrazioni un po’ trite del 25 aprile. Ma forse più che pensare a quello da cui il nostro Paese si è liberato varrebbe la pena riflettere sulle enormi energie che da quell’intimo si sono liberate e hanno permesso la rinascita del Paese. Va da sé che l’Italia è debitrice del Piano Marshall e della sua collocazione geopolitica; ma l’energia che ha utilizzato questi strumenti ed ha permesso l’incredibile balzo del boom economico è quella di moltissimi uomini che hanno personalmente avuto voglia di costruire e lo hanno fatto. Ed è impossibile negare che in buona sostanza questa energia sia stata educata nell’humus cristiano.
È proprio questa, mi pare, la preoccupante differenza con l’oggi. Lo vediamo chiaramente di fronte alla famosa «crisi»: qualcosa ha incrinato in noi la saldezza di quella energia, ci ritroviamo addosso una latente fragilità e più facilmente, di fronte alle difficoltà, ci tremano le gambe. Le cause di questo infragilimento sono state studiate da vari punti di vista; si è giunti persino ad ipotizzare un generale decadimento dell’Occidente, come si trattasse di un mondo ormai consunto dalla vecchiaia, incapace di reagire, di ricostruire, come invece hanno fatto i nostri padri dopo la guerra.
La crisi chiede nuove ricette economiche, cambiamenti strutturali, revisioni legislative, aperture a più vasti fronti. Ma saranno strumenti tristemente insufficienti se non verrà riattizzato – è il grande tema dell’emergenza educativa – il lucignolo fumigante della voglia di costruire, dell’entusiasmo di crescere, della passione di condividere; quelle cose cioè che fanno robusta la persona. Per questo ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno è di vedere uomini che hanno ragioni sufficienti per non arrendersi di fronte alle difficoltà, per non aver paura delle fatiche da fare, per saper inventare strade nuove, per mettersi insieme in un’opera comune. Persone – e per fortuna ce ne sono – guardando le quali si possa autenticamente fare l’esperienza di una «festa della liberazione».