Chiese vuote

Le chiese sono vuote. Lo dicono molti parroci, e non si fa fatica a credergli.La scomparsa dei praticanti è (anche) la dimostrazione esplicita di un malessere diffuso. SALVATORE ABBRUZZESE

Le chiese sono vuote — almeno così sembra. Lo dicono molti parroci, e non si fa fatica a credergli. Indicatore esplicito di una disaffezione oramai conclamata e visibile già dai primi del Novecento, almeno nelle capitali dell’occidente laico come Parigi, dove la scomparsa dei praticanti costituiva già la dimostrazione esplicita di un malessere diffuso. Ad un tale declino si è spesso replicato con la spettacolarizzazione del rito, la cura dei canti e, in qualche caso, le coreografie estetiche. Momenti di silenzio e di meditazione, seguiti dalle preghiere collettive, dai canti della corale e conclusi dai commiati festosi, fatti spesso sul sagrato dai celebranti stessi, confermano il piacere di una comunità ritrovata, lasciando trasparire così il bisogno latente che c’è in molti dei partecipanti.

Questa sorta di valore aggiunto del rituale festivo ha colpito molti sociologi laici della fine Ottocento. Il rito appariva loro come il punto d’incontro di una comunità latente che, proprio attraverso questo, faceva esperienza di un legame sociale superiore a quelli esistenti nella vita ordinaria. Esperienza che, in qualche caso, può consentire di liberare degli interrogativi che vanno oltre questo stesso piacere della comunità ritrovata, per riscoprire le domande fondamentali del senso religioso.

Ma cosa accade quando la società si segmenta, quando nella stessa parrocchia risiedono gruppi diversi, ciascuno dei quali ha i propri sistemi espressivi e le proprie gerarchie di comportamento? L’appropriazione del rito da parte di uno di questi può dare luogo alla prevalenza di una forma sulle altre, al primato di un gesto di comunicazione e di espressione su tutti gli altri possibili. Il rito diventa allora lo specchio dei comportamenti e delle forme del singolo gruppo che, con il consenso del celebrante, stabilisce la propria gerarchia dei comportamenti e delle forme, dando così la propria impronta alle dimensioni espressive del rito, volgendole tutte verso il proprio personale sistema culturale non appena il rito lo consente.

A questo punto, in luogo della comunità locale, c’è il singolo gruppo di fedeli che non ne rappresenta che una delle componenti. Il prevalere del sistema espressivo e comunicativo di quest’ultimo sancisce l’esclusione degli altri. Forme e posture particolari prendono il sopravvento fino ad essere imposte da imperativi veri e propri rivolti ai fedeli — “si fa così e non cosà” — in un’ossessione pedagogica dove la forma, prendendo il posto della sostanza, si frappone tra il praticante ed il Redentore.

Così anni fa assistetti, nella chiesa di Saint’Etienne du Mont — una delle perle del quartiere latino — ad un addetto al culto che sfilava dalle mani di una vecchina la candela che questa si accingeva ad accendere, in quanto era l’ora di chiusura: “E’ festa anche per noi” sentenziò bonariamente ma fermamente. La vecchina aveva dimenticato che era il 1° maggio e certe convenzioni sindacali non conoscono confini. 

O anche, più di recente, il rimprovero a due ragazzi che si tenevano per mano: “gli altri sono imbarazzati” è stato sibilato da un altro addetto al culto alla ragazza esterrefatta: altrettante invasioni dell’omologazione ai principi di un singolo gruppo sociale che fa della chiesa il proprio mondo, un mondo che anche quando è popolato dalle più oneste convinzioni, si frappone tra i gesti espressivi del praticante e il Figlio del falegname di Nazareth. 

L’esigenza dello “spettacolo a modo” da parte di una comunità che si autocelebra travolge tutto. Come nella prestigiosa Saint Sulpice dove, alla messa solenne della domenica, uno dei bambini del coro sviene sui gradini dell’altare durante la recita del Credo. Verrà portato in sagrestia, ma la cerimonia proseguirà e soprattutto, nulla verrà detto alla fine del rito sulla salute del bambino che aveva verosimilmente, con la sua caduta, rovinato il clima e la coreografia che i chierici avevano predisposto per la gioia dei parrocchiani.  

In una società in cui i gruppi sono oramai molteplici e le convenzioni dell’uno non sono quelle degli altri qualsiasi sottolineatura di una di queste espressioni culturali implica la retrocessione delle altre, lo sbarramento e il rinvio dei tanti diversi, magari capitati per caso (ma in realtà per grazia). La comunità ecclesiale diventa un circolo privato che attrarrà alcuni e allontanerà gli altri. Quante parrocchie faranno quest’errore domenica prossima a Parigi, ma anche a Negrar o a Roma? Quante invasioni dell’una o dell’altra forma espressiva invaderanno la sostanza della liturgia per rivestirla secondo un linguaggio che non è più quello universale e nemmeno quello della singola comunità, ma di un manipolo di una decina di persone all’interno di questa? 

Le cause della desertificazione dei riti domenicali rinviano certamente ad un insieme più vasto di cause e afferiscono, in ultima sostanza, alla negazione che la nostra stessa società fa di Dio e dell’Incarnazione del suo figlio. Resta solo la domanda aperta, il desiderio del cuore in attesa di risposte. C’è questo dietro ciascuno che arriva, anche il 1° Maggio, all’ora di chiusura.

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