«La sfiducia negli altri alita dovunque intorno a noi». Con queste parole Ilvo Diamanti commenta su Repubblica i risultati di una recente indagine sociologica, secondo la quale nel nostro Paese la diffidenza è notevolmente cresciuta: «Oltre sei persone su dieci ritengono infatti che “gli altri, se si presentasse l’occasione, approfitterebbero della mia buona fede”. Dunque meglio diffidare. Per cautela. Per autodifesa». La sfiducia è un atteggiamento che investe molti ambiti: la politica e le istituzioni, il rapporto con gli immigrati, la vita lavorativa; ma anche – e questo è più sorprendente e più istruttivo – la Rete. Più istruttivo perché svela un inganno: che basti moltiplicare i contatti, usare un linguaggio diretto, mettere in piazza tutto (in particolare le brutture) per produrre quella schietta sicurezza su cui si può basare una relazione fiduciaria. Avviene, invece, il contrario.
Noi sostanzialmente ci relazioniamo attraverso la parola. Ora, se la parola che mi viene rivolta (o che dico) non indica una realtà chiara e univoca, qualcosa di sperimentato da parte di chi la dice, se chi parla non si assume la responsabilità delle conseguenze che essa può produrre – e questi sono tutti atteggiamenti che non vengono favoriti nella Rete; anzi impera il «sistema talk show» dove si cerca perpetuamente la rissa per fare audience, si usano termini intercambiabili e si porta in palmo di mano chi è più brillante anche se superficiale -; se, dunque, la parola perde sistematicamente il suo peso di realtà e responsabilità è impossibile che il parlare, per quanto senza freni, produca fiducia. Ne risulta solo un’infinita chiacchiera che erode le basi del rapporto invece che solidificarle.
Pensiamo all’Amleto shakespeariano. È insicuro, dubbioso, indeciso perché tutte le parole che sente – a partire da quelle pronunciate dalla madre, colei che dovrebbe impersonare la fiducia primigenia, la parola sicura e univoca – sono ambigue, non hanno più consistenza. E infatti l’unico che dice il vero fino in fondo è il padre assassinato; ma è un fantasma. Per questa assenza di base solida Amleto rimane eternamente incerto, incapace di amare, di agire, di dire, a sua volta, parole franche e dirette, se non fingendosi pazzo. Non ha l’esperienza di una pienezza su cui poggiare, non ha l’esperienza della fiducia.
Siamo un po’ tutti degli Amleto: giochiamo con le parole. E questo ha un prezzo altissimo: invece di stringere in mano la solidità che esse sono chiamate ad indicare, ci ritroviamo con la vacuità sfuggente di sfoghi, insulti, sentimentalismi, sogni. A partire dai quali è impossibile costruire alcunché.
Ilvo Diamanti conclude la sua analisi con un invito: «Praticare e coltivare la fiducia ci conviene». Concordo pienamente. Ma si tratta di individuare una ragione adeguata per fidarsi di qualcuno. Per quanto mi riguarda l’ho fatto e lo faccio solo di fronte a chi mi documenta un uso delle parole così intenso, pacato, coinvolto, esistenziale, responsabile che mi fa venir la voglia di andare a vedere cosa c’è sotto, di arrivare al solido terreno del reale.