“Sono timido, e nuoto con le lacrime agli occhi; stile libero, sperando di arrivare di là…”: così cantava Enzo Jannacci immedesimandosi empaticamente nelle vicende di un povero immigrato. Un genio poetico il suo, certo, ma non isolato.
Tanta gente sa ancora accorgersi e commuoversi per il bisogno che ha intorno. Il risultato della Colletta del Banco Alimentare di fine novembre, come sappiamo, è stato a dir poco sorprendente. Nel momento di crisi più grave dal dopoguerra, quando sempre più famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese, nei supermercati di tutta Italia la gente ha donato alimenti per il 3% in più dell’anno scorso. Un segno che s’inserisce in un sottobosco di gesti di carità e solidarietà radicato tra la gente.
Narrano le cronache antiche sulla costruzione del Duomo di Milano di una povera vecchietta che aveva voluto contribuire alla costruzione della Cattedrale offrendo l’unico mantello che possedeva. Le cronache degli ultimi giorni dicono che in occasione della Colletta alimentare in molti hanno donato non il superfluo, ma parte delle risorse di cui avrebbero voluto far conto in questo momento così difficile. E’ chiaro che, ad onta di tanti commentatori, uno zoccolo duro di italiani sente come esigenza profonda quella che alcuni chiamano carità e altri chiamano solidarietà.
Essere vicino al prossimo, non restare indifferente verso chi soffre o è nel bisogno, prima che un obbligo imposto dall’alto (sociale o spirituale che sia) è qualcosa di intimamente inscritto nel cuore delle persone ed è uno degli aspetti più profondi della nostra tradizione. Anzi, si può dire che nei momenti di crisi più acuti, come accadde ancora centocinquant’anni fa, quando nacquero i movimenti cattolico e operaio, si sente la necessità di questo abbraccio soprattutto tra coloro che si sentono e sono più indifesi.
“Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio”, ebbe a dire don Luigi Giussani. Se si percepisse che questa educazione alla carità, alla solidarietà, all’abbraccio del prossimo e all’ascolto delle periferie, è una risorsa per ripartire e non un orpello da sopportare, sarebbe forse più facile anche battersi per la ripresa.
Invece spesso domina la paura, come rileva il Censis che stima che oltre il 60% di connazionali ritiene che chiunque possa ridursi in una condizione di indigenza. E come si sa, la paura può essere vinta dalla vicinanza disinteressata di qualcuno. Da tutto questo si capisce l’importanza della Cena di Santa Lucia, tradizionale iniziativa della città di Padova che coinvolge persone di ogni ceto, ideologia, professione, colore politico. E’ un gesto di educazione alla carità che ricorda che la città di Sant’Antonio è per tradizione un luogo di accoglienza, di abbraccio al mondo, come ci ricorda la devozione al Santo diffusa in tutti i cinque continenti.
Una solidarietà quindi verso i popoli bisognosi di ogni dove, proprio nel momento in cui si pensa che la globalizzazione renda inutile la cooperazione internazionale, e quando i fondi pubblici italiani e europei destinati a questo scopo vengono ridotti ogni anno. Invece le guerre, le malattie, le carestie, lo sviluppo di un capitalismo ingiusto fanno sì che le persone bisognose aumentino e che la solidarietà non si fermi al vicino di casa, ma arrivi anche oltremare. Volti già conosciuti da chi frequenta la Cena di Santa Lucia, come suor Laura Girotto che lavora in Etiopia, nuovi scenari di bisogno come quelli del Medioriente insanguinato, o i progetti africani e sudamericani della Fondazione AVSI, saranno il segno della grande carità all’opera nel mondo che ha bisogno di essere sostenuta. Alla cena di Santa Lucia Rose Busingie, infermiera che cura i malati di AIDS e crea occasioni di recupero dei giovani da educare negli slum poveri di Kampala, renderà presente la bellezza che si genera quando non ci si dimentica di chi ha più bisogno.