Venerdì scorso abbiamo celebrato la festa del papà. Ed è abbastanza sorprendente che essa prenda spunto da uno – san Giuseppe – che papà lo è stato nel modo più strano immaginabile. Da secoli la tradizione cristiana del rosario fa meditare, come ultimo dei «misteri gaudiosi», l’apparentemente marginale episodio di Gesù dodicenne che rimane a Gerusalemme mentre i suoi genitori si avviano verso casa.
Accortisi che il ragazzo non era, come pensavano, nella carovana, Giuseppe e Maria tornano angosciati a cercarlo in città e lo ritrovano nel tempio mentre ascolta e discute con gli esperti della legge. Comprensibilmente lo rimproverano e si sentono rispondere: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». L’evangelista Luca è costretto ad annotare che «essi non compresero le sue parole».
È infatti molto difficile che un padre capisca e accetti davvero che, arrivato ad una certa età, il figlio deve percorrere la sua autonoma strada, deve staccarsi da lui, deve rispondere ad una paternità – il «Padre mio» – che è molto più profonda di quella che fin lì ha vissuto per via della generazione nella carne. Del resto il padre sa anche che, senza quell’altra paternità, la sua non potrebbe che sfiorire mestamente quanto più il figlio cresce.
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Il «quinto mistero gaudioso» sta lì a ricordare proprio la necessaria, per quanto dolorosa, apertura d’orizzonte che ogni umana paternità deve accettare. Ad essa Giuseppe era stato introdotto dalla modalità stessa della nascita di quello che tutti chiamavano suo figlio. Giuseppe è stato fin dall’inizio suo «vero» padre, cioè puramente «putativo», luogotenente di quell’altro Padre, custode del cammino del figlio quel tanto che è necessario perché egli cresca «in sapienza, età e grazia», come dice ancora il vangelo, e poi s’incammini verso il suo proprio e inconfondibile destino.
La festa del papà suggerisce anche un altro paio di riflessioni. Si dice spesso, credo a ragione, che la nostra società è caratterizzata dall’assenza del padre. La sua figura e il suo ruolo – il ruolo dell’auctoritas, colui che fa crescere perché offre un’ipotesi da verificare – sono stati travolti dalla contestazione radicale di ogni autorità, quasi che la persona possa crescere e diventare se stessa in un vuoto di proposta e di indirizzo.
Più radicalmente, si è voluto cancellare ogni riferimento e dipendenza al Padre che ogni paternità, anche implicitamente, rappresenta. In queste settimane stiamo assistendo all’ennesima puntata di questa lotta suicida contro la paternità. Colui che per milioni di persone è il «santo padre», è sottoposto a un violentissimo fuoco di fila di accuse. Esse riguardano un presunto esercizio fallimentare della paternità, proprio nella sfera delicatissima del rapporto educativo. Su questo giornale si è giù risposto sul merito di queste accuse.
A me interessa solo far notare che il fango gettato su Benedetto XVI e sulla Chiesa tutta non è altro che l’ennesimo passo verso l’abolizione della struttura stessa della autorità/paternità. Il bersaglio è ancora una volta il padre in quanto tale, fragile ma autorevole, inadeguato ma necessario come rimando al Padre, tremante ma fermo nella sua proposta e nei suoi tentativi. A sostituirlo si invoca la gelida lama di una giustizia che si pensa onnipotente, lo spontaneismo libertario di cui si nascondono gli esiti devastanti, il macchinoso democraticismo (anche ecclesiale). Insomma, idee. Invece i figli nascono dai padri – e dalle madri – non dalle idee.