Com’è bella la città

In un mondo in subbuglio, in preda a tentazioni isolazioniste, esistono anche alcune città-stato. Come Londra, certamente, ma come sta diventando anche Milano, spiega GIORGIO VITTADINI

In un mondo in subbuglio, sempre più in preda a tentazioni nazionaliste, xenofobe e protezioniste, le dinamiche di sviluppo e di integrazione tra popoli proseguono comunque il loro corso. Protagoniste di questa funzione capitale sono ad esempio alcune città-stato. Come Londra, certamente, ma come sta diventando anche Milano.

Londra sta soffrendo Brexit, anzi, sta lavorando per rovesciare o modificare l’esito del referendum del 2016. Mentre Theresa May (moglie di un finanziere) ha inaspettatamente perso le elezioni sul programma hard Brexit, il sito di Financial Times mantiene un’eloquente sezione fissa su Brexit in progress: un bollettino quotidiano che distilla tutte le preoccupazioni di una capitale la cui identità e strategia è stata messa in pericolo dal suo stesso Paese. Great London non è colpita solo dalla fuga dei banchieri a Parigi e Francoforte (o anche Milano) o dalla caduta dei prezzi immobiliari con conseguente invasione di investitori cinesi. La City è tutt’altro che riducibile a un grande forziere offshore: è la metropoli da cui – non per caso – sono state clonate le grandi città-stato dell’Asia, che oggi sono probabilmente il caso d’avanguardia globale nel genere. E sia Hong Kong che Singapore incarnano a livello geopolitico il tentativo di far leva su una singola “città forte” per modificare più ampie dinamiche di sviluppo.

Per la verità Londra, a cavallo far ventesimo e ventunesimo secolo, ha quanto meno ispirato anche un terzo grappolo di città-stato con ambizioni di bussola globale: gli Emirati del Golfo. Dubai e Abu Dhabi hanno fatto molti passi avanti nello sforzo per diventare a un tempo polo finanziario e incubatore di imprenditoria avanzata, meta turistica e crocevia di scambi di ogni natura. Anche sulla riva araba del Golfo si sta coltivando un’aspirazione-scommessa di alto livello: dimostrare che l’Islam identitario non è incompatibile con i modi di vivere che si sono sviluppati a Occidente ma ormai anche a Oriente. Che si possono creare le nuove compagnie aeree leader nel mondo senza rinunciare alle hostess con il velo. Che si possono richiamare medici d’eccellenza non solo pagandoli cifre astronomiche per un paio d’anni, ma mettendo loro a disposizione centri di ricerca di punta.

Passando all’Asia, Hong Kong è chiaramente il laboratorio di un esperimento che può risultare decisivo per tutti i cittadini del pianeta: quello di avvicinare la Cina agli standard di vita civile prevalenti in Europa e nelle Americhe. I britannici ci provarono per primi alla fine del ‘700, portando alla corte imperiale di Pechino il meglio di un Paese che era allora leader mondiale: la rivoluzione industriale, le capacità di muoversi sui mari, Oxbridge. Non penetrarono di un millimetro in una Cina ancora medioevale: costruirono Hong Kong come loro “città-stato”, dotata di tutto (governo e infrastrutture, ricchezza e prestigio). Alla fine del XX secolo l’annessione di Hong Kong alla mainland ha significato per la Pechino dei tecnocrati qualcosa a metà fra l’avverarsi di un sogno proibito e il simbolo autentico del Grande Balzo in Avanti: non quello concepito da Mao, ma la corsa al primato globale avviata dai suoi successori.

Una grande città-stato per definizione libera energie, apre prospettive nuove, gioca continuamente il suo passato nel futuro. Singapore è oggi banco di prova di un format avanzato: un melting pot di etnie e religioni all’interno di un contenitore democratico in cui contano anzitutto i doveri e le responsabilità verso la collettività. Un mondo dove anche l’”ordine sociale” è però affidato sempre di più all’alta tecnologia. Un hub economico-finanziario che è baricentro geografico fra India e Cina, fra Indonesia e Indocina.

Tra le città europee, c’è sicuramente Milano, che non è una capitale con un intero stato annesso come Parigi, ma neppure un’anonima non-capitale come Francoforte. Milano ha un passato come Vienna, ma non si è fermata a quel passato; ha la stessa latinità di Madrid, ma ha attorno migliaia di chilometri pieni di industria che la fanno assomigliare alla Baviera; ha eventi come il Salone del Mobile e le settimane della moda che attirano una miriade di persone intorno a prodotti di successo mondiale. Ha messo in comune la sua Borsa con quella di Londra e ora alza la mano per ospitare la sede dell’Ema, l’agenzia europea forse a più alto contenuto scientifico-tecnologico; continua a rinnovarsi architettonicamente e a diventare sempre più accogliente; ha migliorato le sue università attirando studenti non solo dall’Italia ma da oltre Alpe; i suoi ospedali e centri di ricerca biomedica sono al vertice europeo e mondiale. Non ultimo, il suo sistema pubblico-privato non profit ha generato un modello di integrazione virtuoso, in un contesto in cui una percentuale crescente di immigrati diventa imprenditore.

Mentre il Pil italiano stenta a crescere, quello milanese è al pari delle città leader europee e grazie alla spinta dell’Expo giunge a competere come presenze turistiche con Roma, Firenze, Venezia e Napoli.

Sulla scia di quanto avviene nel mondo, lungi da tentazioni neo centralistiche, bocciate con l’ultimo referendum, e lungi da fantasie “padane” isolazionistiche senza alcun riscontro storico, il nuovo “ducato di Milano” mostra come il nostro Paese può rilanciarsi: favorendo la nascita di zone franche di eccellenza che dialogano direttamente con il mondo sul piano culturale, economico, dell’interrelazione di persone. Questi legami che nascono, se non ostacolati con lacci e lacciuoli o ingabbiati da leader xenofobi e micragnosi diverranno inevitabilmente una ricchezza per tutto il Paese che non potrà non arricchirsi per osmosi. Come avveniva nell’epoca di Comuni e Signorie quando l’Italia, pur politicamente divisa, beneficiava della ricchezza di città in dialogo sul mondo. È ora di aprire gli orizzonti e uscire dalle immagini stereotipate verso nuovi assetti “creativi”.

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