Perché non sappiamo ascoltare il Papa?

Sabato papa Francesco ha detto che la famiglia è solo quella uomo-donna e che l'aborto selettivo è nazismo in guanti bianchi. Era facile aspettarsi tre tipi di reazioni. MAURIZIO VITALI

Sabato papa Francesco ha piazzato due stoccate di sciabola contro la mentalità comune sui temi etici. Ha detto che la famiglia è solo quella tra uomo e donna, e che l’aborto selettivo è nazismo in guanti bianchi. Il linguaggio è il suo: pane al pane e vino al vino, senza stare a girarci intorno e senza le cautele tipiche di chi non vuole scontentare nessuno. Era facile aspettarsi tre tipi di reazioni. 

Quella dei tradizionalisti: “Era ora che il papa dell’Amoris Laetitia proclamasse la sana dottrina sui valori non negoziabili”. Quella dei progressisti pro Lgbt: “Il lupo perde il pelo ma non il vizio, il capo dei cattolici ha gettato la maschera”. Pescando nei giornali online di ieri, si trova per esempio, nella categoria tradizionalisti, un commento di Camillo Langone sul Giornale che suona così: “Questa degli abortisti nazisti è fantastica, peccato solo che sia in ritardo rispetto al referendum irlandese sull’aborto, stravinto dai nazistoidi il mese scorso”. Per la categoria progressisti, Il Manifesto propone questa spiegazione: “Francesco ama assecondare il proprio uditorio. … Quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, pro life con le associazioni familiari”. E aggiunge: “In tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione”. Resta la terza posizione, quella dei disorientati né carne né pesce: “Ma non era lui a dire chi sono io per giudicare un gay?”.

Insomma, fra il papa della misericordia e Francesco con la sciabola non si trova la quadra.

Il fatto è che, non avendo veramente ascoltato la lezione dell’Anno Santo, si continua da parte di molti a contrapporre misericordia a giustizia (o giudizio). Alterando il senso di entrambe le parole, come se la prima indicasse un inerme e dolciastro buonismo sentimentale e la seconda una sentenza capitale sacri codici nel pugno.

Il papa non è bipolare. Se afferma la dottrina è per un’amorosa comunicazione di verità all’uomo cui contemporaneamente spalanca il proprio abbraccio. Egli in mezzo alle circostanze non è per nulla doppio e camaleontico, ma “uno” e libero (financo nel linguaggio) in forza di un’evidente familiarità con Cristo.

Il problema sta tutto dall’altra parte. La nostra parte. Ed è la capacità (o incapacità) di ascolto. 

A quanto pare, è abbastanza appurato che oggi amiamo sentirci dire quello che crediamo di sapere già, qualcosa che confermi il giudizio per lo più massimalista che ci siamo già fatti. L’immagine e la sua velocità ci distrae dalla parola. E anche l’immagine semplificata e ridotta nei brevi pollici di un touch screen, si fa identificare ma non osservare e ascoltare. Ci siamo sempre più assuefatti ad esprimerci con la banalità senza chiaroscuri di like e faccine. Il discorso pubblico è il più delle volte esercitato, a fini di consenso, con slogan apodittici e non con argomentazioni minimamente adeguate alla complessità dei problemi. Il tutto avviene in un ambiente di elevatissimo e cacofonico rumore di fondo e in totale disabitudine al silenzio. Ma soprattutto l’insicurezza esistenziale ci induce a proteggerci nel carapace del luogo comune e del costume dominante, più gradito al potere. Lasciarci mettere in discussione è come sentirci togliere la terra da sotto i piedi.

Eppure questo assestamento non resiste alla verifica della quotidiana esperienza di ognuno di noi. Prima o poi la realtà si incarica di farci sbattere la faccia, di aprire una crepa attraverso cui può riemergere l’urgenza del cuore, il bisogno che siamo di compierci, realizzarci, essere pienamente e felicemente uomini. Il senso del bisogno e della propria incompiutezza ci offriranno la condizione primaria dell’ascolto: l’attenzione a ogni realtà e a ogni incontro per rintracciarvi l’attrattiva di un’autorevolezza, e il segno di un bene più grande possibile per sé.

Ecco, se non sappiamo veramente ascoltare il papa, se non siamo raggiunti dalla sua autorevolezza e credibilità, dall’attrattiva della sua testimonianza, è perché non sappiamo ascoltare il cuore. Occorre appoggiare l’orecchio su quella benedetta crepa, come un Apache lo incolla al terreno per percepire l’indizio di una minaccia ostile o di una speranza buona di salvezza.

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