L’unità si può fare?

"Cristo è stato forse diviso?". E' questo il tema scelto per la settimana di preghiere per l’unità dei credenti che la Chiesa celebra dal 18 al 25 gennaio. E in Russia? GIOVANNA PARRAVICINI

“Cristo è stato forse diviso?”. Questo è il tema – provocatorio oggi come duemila anni fa, quando Paolo apostrofò i cristiani di Corinto, che erano già riusciti a dividersi in fazioni – scelto per la settimana di preghiere per l’unità dei credenti che la Chiesa celebra dal 18 al 25 gennaio.

La provocazione di questo interrogativo sta nel porre ciascuno di noi davanti a un fatto reale che viene prima di ogni divisione: no, Cristo non è stato diviso. Nasce di qui la gioiosa baldanza che fa dire a papa Francesco: “I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere… La nostra fede è sfidata a intravedere il vino in cui l’acqua può essere trasformata, e a scoprire il grano che nasce in mezzo alla zizzania”. E questo non può non interrogarci sulla posizione che decidiamo di assumere di fronte allo scandalo quotidiano della divisione, dal livello personale e interpersonale fino a quello sociale, politico, o addirittura al dialogo ecumenico.

In quest’ultimo ambito non sono mancate, in questo scorcio d’inizio d’anno, divisioni e polemiche. Ha fatto rumore la presa di posizione ufficiale del Patriarcato di Mosca a proposito del primato nella Chiesa universale, resa pubblica alla fine di dicembre. Si tratta di un testo che ha una lunga gestazione – quasi sei anni – e che, nelle sue formulazioni, rispecchia il profondo disagio della Chiesa russa non solo nei confronti di Roma ma anche di Costantinopoli, a cui Mosca rimprovera, in particolare, di ricadere in una sorta di “papismo” nei confronti delle altre Chiese ortodosse. È un testo duro, discutibile (e già messo in discussione da più parti, nel mondo dell’ortodossia), sintomo evidente della faticosità del dialogo teologico internazionale. Ai primi giorni di gennaio, l’invito del patriarca Bartolomeo ai patriarchi e agli arcivescovi di tutte le Chiese ortodosse per un incontro a Costantinopoli nel marzo prossimo, che probabilmente voleva essere un appello all’unità, anche in vista del Sinodo panortodosso previsto per il 2015, è praticamente caduto nel vuoto.

La provocatorietà della domanda che la Chiesa ci ripropone in questa settimana dell’unità è ripresa dal cardinal Koch, proprio in riferimento al documento della Chiesa ortodossa russa, con un’immagine suggestiva: “Fin da bambino mi ha molto colpito, nella storia della Passione, che i soldati romani abbiano diviso tutto quello che era del Signore, fuorché la sua veste. Non l’hanno divisa, hanno voluto lasciarla intera; così anche essa è diventata, nella storia della Chiesa, segno dell’unità della Chiesa”. In altri termini, possiamo leggere questi fatti come dei fallimenti, oppure raccoglierne la sfida e vedervi altrettanti sintomi dell’impossibilità a rassegnarsi al quieto vivere, al proprio isolamento, la riprova della necessità di un confronto, di un dialogo – difficile ma irrinunciabile tra fratelli.

Non ci mancano icone viventi di quest’unità che viene prima di ogni divisione: pensiamo allo splendido dialogo “riservato” tra Paolo VI e Atenagora nel 1964, registrato “per un disguido” dalla Rai e recentemente pubblicato dall’Osservatore Romano: “Nessuna questione di prestigio, di primato, che non sia quello stabilito da Cristo. Assolutamente nulla che tratti di onori, di privilegi. Vediamo quello che Cristo ci chiede e ciascuno prende la sua posizione; ma senza alcuna umana ambizione di prevalere, d’aver gloria, vantaggi. Ma di servire”. Oppure ad alcuni disarmanti passi della Evangelii gaudium in cui papa Francesco, con l’umiltà e l’audacia di fede che gli sono caratteristiche, supera di getto le rivendicazioni del Patriarcato di Mosca auspicando una “salutare decentralizzazione“, una maggior autonomia delle Chiese locali, riconoscendo che finora si è fatto poco per “trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova”, e così via. Ma soprattutto ponendo come pietra angolare lo struggente imperativo della missione, “il sogno missionario di arrivare a tutti”, che usa tutto, con la massima libertà, come un “canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione”. 

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