“Da oggi il suo mestiere la fa la macchina: lei è licenziato”. Lui, Osmu Labib, ha 61 anni, lavora in quell’azienda da trent’anni e gliene mancherebbero quattro per andare in pensione. La macchina metterà alle taniche prodotte in attesa di verniciatura gli stessi tappi provvisori che l’operaio applicava con una mano sola, dato che ci rimise l’altra in una pressa, stessa ditta, anno Domini 1991. La ditta è la Greif Italia Spa, con sede a Melzo, provincia di Milano, 51 milioni di fatturato, ramo nostrano di una multinazionale attiva in cinque continenti. Lui commenta: “Lavorare lì era la mia vita”.
Osmu Labib vuole il lavoro, non — per dire — un reddito di cittadinanza. E’ su un altro pianeta, sempre per dire, rispetto a un Beppe Grillo per il quale la crisi non esiste perché dieci anni sono troppi per una crisi, non si deve puntare sul lavoro perché già produciamo più del necessario, e il diritto al reddito è dato dalla nascita. Per lui, e per i prof utopisti francesi del Collectif Roosevelt da cui trae pensieri, il lavoro è un meccanismo: produzione di merci e servizi. Invece Osmu Labib vive il lavoro come irrinunciabile fattore di autorealizzazione di sé, spazio di cooperazione e socialità, percezione della propria utilità, soddisfazione, anche, di portare a casa mezzi di sostentamento per la famiglia e il diritto alla pensione.
Fa specie piuttosto che con tutti i giovani cervelli mckinseyani che fumano a pagamento per prevedere le trasformazioni e riorganizzarsi, non un cane che sia riuscito per tempo a immaginare, per un fedele operaio che ha lasciato la mano nella tua pressa, uno straccio di percorso di riqualificazione professionale in funzione dei nuovi processi.
Senza cuore e passione, anche l’inventiva si affloscia.
Una piccola prova “a contrario“? Vimodrone, a pochi chilometri — combinazione — da Melzo. Altra azienda, altra storia. E’ la storia di Emilio Lentini, operaio 53enne della Mattei Group. Colpito da una micidiale leucemia, salvato con un intervento di trapianto di midollo donato dal figlio, ha avuto bisogno di una lunga convalescenza che lo ha costretto ad esaurire tutti i giorni retribuiti di malattia. Non essendo ancora in grado di rientrare al lavoro, stava preparando le pratiche per ottenere un’aspettativa non retribuita. Gli altri operai non si rassegnano a saperlo senza stipendio e sono pronti a dare del loro. Insieme all’azienda (verosimilmente non mckinseyana) trovano la strada giusta per trasferire un giorno o due delle proprie ferie al collega malato. L’Emilio si trova così un regalo di 110 giorni di convalescenza retribuita.
Perché l’hanno fatto? “Emilio è sempre stato uno di noi, ha combattuto tante battaglie e non potevamo non stargli vicino”: ecco, cuore e passione. Da uomini a uomini. Come dire, nel linguaggio cristiano che va nel più profondo delle cose: “La carità sarà sempre necessaria anche nella società più giusta” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28).
Nel caso del malato di leucemia, le leggi c’erano. Ma da sole non sarebbero bastate. C’è voluto che saltasse fuori una dose di gratuità, che sta originariamente nel fondo di ogni uomo, e che spinge a implicare sé di fronte al bisogno, a guardarlo con intelligenza realistica e non con astrattezza ideologica, ad affrontarlo con creatività operosa e non con l’inefficace armamentario del passato o il verticismo del nuovo apprendista stregone.
Anche nel caso dell’operaio licenziato, si è seguita la legge: e però si è commessa un’ingiustizia. Non c’è stato cuore, non intelligenza, né creatività.
Non è che la gratuità, con la cultura e l’operosità che innesca, risolva tutto. E’ che senza, non si risolve niente. Questione di metodo.
Per esempio: il lavoro dei rider. Più ascolto delle reali situazioni e più mi convinco che meno improvvisazioni da apprendista stregone, aiuterebbero… anche il nuovo governo. Invece Di Maio in quattro e quattr’otto è passato dal (mancato) colpo di bacchetta magica del decreto già pronto al colpo di sonno (vedremo) del solito “tavolo di consultazione”.