Gli spagnoli assistono esterrefatti a un nuovo capitolo del deplorevole spettacolo che è diventata la vita politica del Paese da nove mesi a questa parte. Il nuovo capitolo, le dimissioni di Pedro Sánchez da Segretario generale del Psoe, è arrivato dopo che egli stesso aveva trasformato il principale partito d’opposizione in un campo di battaglia. Praticamente se n’è dovuto andare dopo che le due fazioni (i suoi sostenitori e i suoi detrattori) si erano affrontate come i vecchi movimenti universitari nei giorni di contestazione: si sono combattute come solo accade nelle scissioni delle formazioni extraparlamentari. Stiamo parlando del partito che ha governato di più in Spagna e che continua a governare in molte comunità autonome e città.
Il triste spettacolo ha avuto molto a che vedere con la posizione personale di Pedro Sánchez, che non è stato disposto ad accettare le sconfitte, a facilitare un governo del Partido popular. Ma la crisi politica spagnola e la situazione grottesca del Psoe non sono il risultato solo del comportamento di Sánchez, ma di una riduzione della democrazia a procedimenti, a formazione di maggioranze. Una riduzione collegata alla decomposizione del substrato antropologico che tiene in piedi la vita comune. Il problema riguarda, in misura maggiore o minore, tutti.
Il sistema democratico si basa sulle decisioni prese dalla maggioranza all’interno dei canali costituzionali. Ma la maggioranza non è il fondamento della democrazia. Si sceglie il governo, ma non si sceglie il popolo, diceva Bertolt Brecht. Non tutto in democrazia è frutto della volontà, si parte sempre da un dato preesistente: una comunità che già esiste, che accetta di essere tale. Accettare di far parte di una certa unità sociale non è conseguenza della maggioranza.
I primi teorici della democrazia moderna fecero ricorso, per spiegarlo, alla figura del contratto sociale. Il primo accordo, sebbene in senso metaforico, si basa sull’unanimità. Questo dato precedente alla vita democratica (io-sono-con-te) si può esprimere in diversi modi. Ma quando smette di essere qualcosa di evidente e si pretende, consciamente o meno, di far sì che la maggioranza si sostituisca alla comunità politica si resta impantanati in discussioni procedurali, le quali portano a dibattiti sulle questioni a monte del procedimento e tale questioni, che sono pure loro procedurali, portano e nuove questioni procedurali, creando un circuito da cui è impossibile uscire. Questo è quel che è successo al Psoe. Chi ha partecipato ad assemblee universitarie sa che la questione decisiva è la costituzione del tavolo dei relatori: la sua formazione si basa sempre non su ragioni di rappresentatività, ma di potere.
Le tre rivoluzioni che hanno reso possibile la democrazia moderna hanno costruito tre differenti storie per dare fondamento a questa previa unità che dà coesione al sistema che prende le decisioni. La rivoluzione francese trovò la sua forza spirituale nella passione di Rousseau, per il quale l’ideale di democrazia non era un mero sistema di governo, ma un nuovo modello di vita, un ideale laico di fraternità. La rivoluzione statunitense è figlia del patto ecclesiale dei puritani che sbarcarono a Capo Cod: formarono una comunità per costruire la “città sulla collina”. Allo stesso modo, la rivoluzione inglese, che è stata la prima, si basa sul sentimento di far parte di un comunità sociale, e soprattutto economica, che stava sopra le differenze religiose.
Le esperienze e le crisi successive hanno contribuito a “ricreare” l’accordo iniziale: in tutta Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, si ricominciò dopo aver riconosciuto un’unità più profonda delle ferite provocate da fascismo e antifascismo; in Spagna e in Portogallo, negli anni ’70, le transizioni verso la democrazia furono propiziate da una rifondazione dell’unità nazionale (non solo territoriale). Prima di determinare i processi per formare maggioranze, gli altri vengono riconosciuti come parte di un “noi”. Oggi, però, i presupposti antropologici che sono stati alla base delle tre rivoluzioni liberali sono spariti. La nuova generazione di politici spagnoli, come gli altri europei, non ha riconquistato ciò che era evidente ai propri padri. E l’albero dei procedimenti ora produce frutti amari. Il riconoscimento della comunità viene meno e ciò fa sì che l’altro sia il male da sconfiggere con una maggioranza sufficiente.
Altro e male diventano sinonimi. E questo altro diventa sempre più grande: prima sono gli altri partiti, poi sono quelli del mio stesso partito che non sono abbastanza drastici nei confronti degli avversari politici… La vita politica assume tratti da setta, i circoli di appartenenza si stringono e aumenta la disconnessione dalla realtà. L’elettore assiste perplesso a questa ricerca violenta di maggioranze aritmetiche, dove viene distrutta qualunque unità elementare. E non ci si accorge che tante volte ci si trova di fronte a uno specchio che riflette la propria immagine: è vero che è aumentata e deformata, ma è identica nell’essenziale.
Di fronte a un problema così serio, che non è solamente spagnolo, il sociologo tedesco Harald Welzer parla di rilancio del piano intermedio, quello della società. La democrazia ridotta a processo, la globalizzazione sconcertante, incoraggiano a vedere gli altri come membri di “totalità immaginate” e l’astrazione favorisce la dialettica del nemico.
Al contrario, l’incontro personale, segnala Welzer, è un laboratorio per testare nuovi modi di stare insieme. L’incontro con i vicini, i colleghi di lavoro, i postini, i negozianti… può essere l’inizio di qualcosa di diverso. Con alcune di queste persone ci possono essere scontri, ma si tratta di scontri personali. Fuori dall’astrazione, le categorie ideologiche tendono a svanire e viene a galla la sorpresa di scoprire che gli altri sono anche noi. Sicuramente ci vuole più del dialogo di cui parla Welzer. Ma certamente le relazioni concrete sono necessarie per recuperare la coscienza di un’unità senza cui la democrazia muore.