Precari si nasce o si diventa?

In futuro alcuni lavoratori di oggi, specie i giovani precari, potrebbero avere una pensione bassa. Il problema, spiega GIULIANO CAZZOLA, su questo tema è davvero complesso

Si sono svolte a Milano, la scorsa settimana, le “Giornate nazionali sulla previdenza”. Vi hanno preso parte i rappresentanti delle istituzioni pubbliche e private, gli esperti e gli operatori del settore. A voler trarre una conclusione dei tanti interventi svolti, come delle considerazioni e delle proposte formulate, si potrebbe sintetizzare quanto segue: la previdenza obbligatoria, grazie alle riforme, ha davanti a sé una prospettiva di sostenibilità, mentre presenterà sicuramente dei problemi di adeguatezza per quanto riguarda i trattamenti delle generazioni future.

A questo gap, secondo il dibattito emerso dalle “Giornate”, si dovrebbe rispondere, prevalentemente, attraverso lo sviluppo e il potenziamento del “secondo pilastro” (ovvero della previdenza privata a capitalizzazione) che, da noi, non è ancora decollata secondo le aspettative, ma presenta tuttora rilevanti “buchi neri” in molti comparti del mondo del lavoro e, soprattutto, non attecchisce tra le giovani generazioni.

Da queste analisi derivano le terapie, che vanno da un più generoso regime fiscale per le forme di previdenza complementare a una più diffusa, attenta, preventiva e capillare opera di informazione, a partire dalla scuola, sulle tematiche pensionistiche. Ovviamente si tratterebbe di misure importanti e utili, che, tuttavia, non andrebbero, ad avviso di chi scrive, al cuore del problema. Sarà anche vero, infatti, che per i giovani l’appuntamento con la pensione è riservato a una fase della vita ancora lontana. Sarà anche vero che spiegare loro come funzionano i meccanismi del sistema contributivo potrebbe indurli a provvedere per tempo al loro futuro di pensionati. Ma anche per dei giovani informati e attenti vale il principio del ad impossibilia nemo tenetur.

Se la previdenza complementare rimane preclusa ai giovani non è colpa della trascuratezza loro e delle loro famiglie: il fatto è che la previdenza obbligatoria drena consistenti risorse e non lascia un’adeguata base economica per quella privata, soprattutto se un giovane si trova ancora in una condizione professionale precaria. Un lavoratore dipendente con un rapporto a tempo indeterminato versa alla previdenza obbligatoria il 33% del proprio reddito (solo per far fronte alla aliquota pensionistica). Per finanziare una posizione individuale di un fondo pensione a capitalizzazione in modo di avere, al momento della quiescenza, almeno un tasso di sostituzione del 16-17% (da aggiungere a quello del regime pubblico) occorre versare un ulteriore 10%. Il dipendente può farlo conferendo il tfr (6,91%) e, se nella categoria di appartenenza è istituito un fondo pensione, la quota a carico del datore e suo.

Se invece il giovane è iscritto alla Gestione separata dell’Inps deve versare il 26% del reddito e non dispone né del tfr, né del contributo del committente. Pertanto la quota aggiuntiva per finanziare una forma di previdenza complementare la deve sottrarre al suo magro guadagno, quasi sempre caratterizzato da pause più o meno lunghe di inattività. Pochi giorni prima dell’apertura delle “Giornate” si è cimentato con il tema pensioni – autorevolmente – Massimo Mucchetti su Il Corriere della Sera del 1° maggio (Se l’Inps sfidasse i fondi pensione).

Le sue proposte sono così riassunte e replicate: 1) Gli italiani si fidano più dell’Inps che dei gestori privati. È il caso allora che sia questo Istituto a promuovere un fondo pensione. Per svolgere attività di previdenza privata a capitalizzazione, però, occorrono competenze professionali che l’Inps non ha, ma che potrebbe recuperare anche attraverso l’esperienza in corso dell’amministrazione del cosiddetto Fondo residuale dove confluiscono i tfr non optati e che non abbiano trovato altra destinazione. In ogni caso – per l’Inps come per i fondi pensione – il gestore, per legge, dovrebbe essere, tramite apposita convenzione, un soggetto dotato del necessario know how professionale ovvero una Sim, una società di gestione di fondi comuni, una Sgr o una compagnia di assicurazione.

2) Quanto alla seconda proposta ovvero al riconoscimento della possibilità di versare, nel sistema contributivo, risorse aggiuntive oltre a quelle attinenti all’aliquota contributiva, allo scopo di ottenere a suo tempo una pensione più elevata, è bene ricordare che: a) come abbiamo già cercato di dimostrare, i lavoratori, specie quelli più giovani, stentano a privarsi di ulteriori quote di reddito dal momento che occorre vivere tutti i giorni e non preoccuparsi soltanto di che cosa capiterà al momento della pensione; b) in ogni caso, anche il sistema contributivo rimane a ripartizione: sono i lavoratori attivi a finanziare con i propri contributi le pensioni in essere. Ne deriva che alla maggiore contribuzione versata oggi corrisponderebbero certamente più elevati diritti pensionistici, domani.

Ma, a parte ogni considerazione sull’equità di un’operazione siffatta, occorre aver presente che quegli stessi maggiori contributi non finirebbero in una posizione individuale, fatta di risorse reali e gestita a capitalizzazione; sarebbero accreditati virtualmente, ma impiegati – al momento stesso del loro incasso – per pagare i trattamenti in essere, mentre la pensione più elevata, domani, sarebbe finanziata dai contributi versati dai lavoratori di domani. Il problema, allora, non è quello di assicurare – oggi e in modo virtuale – maggiori diritti pensionistici (ai figli), ma di operare affinché quei diritti siano effettivamente esigibili in base al quadro demografico, economico e occupazionale di domani, anzi di dopo domani.

In sostanza, grazie alla Catena di sant’Antonio della ripartizione, finiremmo soltanto per chiedere alle nuove generazioni (dei nipoti) di sopportare un onere – per loro attuale – ancor più insostenibile.

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