Crisi economica: dove si mette il però?

Visti i recenti dati economici torna a presentarsi la domanda: stiamo finalmente uscendo dalla crisi? Tra gli osservatori spesso prevalgono i però, dice GIORGIO VITTADINI

Non si tratta della solita alternativa tra bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. La situazione economica del nostro Paese richiede di essere letta oltre gli schemi noti, come sempre quando si attraversano fasi nuove. L’Istat ha da poco dichiarato che la crescita si sta consolidando. È di mercoledì la notizia che la produzione industriale a giugno è cresciuta dell’1,1% rispetto al mese precedente e del 5,3% su base annuale. Anche Bankitalia ha alzato a luglio le stime del Pil per quest’anno a +1,4%, rispetto allo 1,1% indicato dal governo nel Def. È di ieri invece la notizia che la quota di posti vacanti – per i quali le aziende sono a caccia di personale – tocca nel secondo trimestre dell’anno il massimo dal 2010.



Rilevante è soprattutto l’apporto degli scambi con l’estero. Nel biennio 2017-18 contributi importanti sono attesi da farmaceutica, metallurgia e filiera elettromeccanica, soprattutto grazie all’elettrotecnica e nel 2018 il ritorno sugli investimenti medio del manifatturiero tornerà sopra il 6%, valore non distante da quello ante-crisi.



E allora la domanda fatidica: stiamo finalmente uscendo dalla crisi? Tra gli osservatori spesso prevalgono i però: bene i segnali positivi, però la situazione è così critica che di vera svolta non si può parlare e, anzi, non è escluso che si possa ricadere presto nel baratro. In effetti le incognite sono troppe e i fattori da considerare sono tanti: dagli investimenti (quelli privati sono in ripresa, quelli pubblici languono), alla tassazione, alle banche (per ora risolto?), al debito pubblico che non diminuisce, al Sud che non decolla mai. 

Ma è la finanziarizzazione spinta dell’economia a rendere ancora più imprevedibile e critica la situazione. Secondo la concezione neoliberista dominante non c’è altra scelta razionale in economia che cercare di massimizzare il profitto di breve periodo. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è qui sintetizzato: “A partire dal 1980 l’ammontare degli attivi generati dal sistema finanziario ha superato il valore del Pil dell’intero pianeta. Da allora la corsa della finanza al profitto è diventata così veloce da quintuplicare per massa di attivo l’economia reale nel giro di un trentennio” (da “Neoliberismo e manipolazione di massa” di Ilaria Bifarini). Per quale ragione un imprenditore, potendo guadagnare con la finanza somme ingenti e in tempi brevi, dovrebbe stare lì a innovare, studiare, trovare mercati? Il fatto è che un imprenditore vero non vuole solo arricchirsi, vuole costruire, creare, rischiare.



I più grandi casi di successo imprenditoriale recente, dalla Apple di Steve Jobs, alla SpaceX di Mask, dalla Microsoft di Bill Gates alla Facebook di Zuckerberg, sono nate da imprenditori attenti al profitto, ma che sono stati capaci di creare prodotti e modelli imprenditoriali nuovi, molte volte con grande attenzione anche a solidarietà e filantropia, oltre che sfruttando le agevolazioni create dallo Stato.

Sono persone che non hanno aspettano che “le cose fossero a posto” per cominciare a inventare, che hanno guardato alle analisi economiche come strumenti per conoscere, non come assoluti a cui adeguarsi, che hanno usato gli indici di bilancio come misuratori a posteriori della loro creatività e non come schemi a priori a cui sacrificare ogni rischio. In Italia molte giovani imprese hanno registrato un grande dinamismo sul piano della crescita del fatturato. In settori tradizionali come il tessile sono nate nuove multinazionali tascabili come Yamamay o Calzedonia o Cucinelli o  Chicco, nell’agroalimentare una inventività geniale da Nord a Sud ci fa superare la Francia come leader mondiali nel settore del vino. 

Si può andare avanti, ma il punto è chiaro: a meno di non ridursi agli schematismi di certi analisti della Banca mondiale che non ritiene replicabili progetti di sviluppo in cui è implicato l’imponderabile fattore umano, bisogna ammettere che il problema non è se il bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo pieno, ma dove si mette il però: la crisi c’è, però qualcuno sta già cercando il modo per uscirne. Aiutiamolo a farlo invece di discutere in astratto.

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