Scommettere sull’Iraq

In Iraq è forte il desiderio della popolazione di vivere e condurre una vita normale. L’Unione europea, spiega MARIO MAURO, dovrebbe impegnarsi maggiormente in questo Paese

Durante la missione in Iraq alla quale ho partecipato alla fine del mese di aprile, in mezzo ai tantissimi problemi che tormentano il Paese, è emersa particolarmente la questione della sicurezza: In Iraq si muore perché si ha voglia di vivere.

Le persone hanno il desiderio di vivere e condurre una vita normale. Ogni giorno andare a scuola, fare la spesa, andare a lavorare, le azioni più comuni rappresentano una sfida, mossa dalla volontà di riscattare la storia di un popolo.

Uno sviluppo delle relazioni commerciali fra i due paesi a condizione di un maggiore riconoscimento dei diritti: è questo in sintesi lo spirito di quello che sarà il primo accordo di cooperazione tra Unione europea e Iraq, di cui sono relatore in Commissione Affari esteri. Questo accordo ha l’ambizione di pianificare la collaborazione futura tra noi e gli iracheni. Ossia stabilire quante risorse, come vogliamo destinarle, che tipo di scambi nei diversi settori svilupperemo e come far nascere uno sviluppo duraturo – e non solo economico ma anche sociale – basato sulla pace, in questo Paese così strategico per l’Europa.

Ne abbiamo discusso mercoledì scorso durante un’audizione a Bruxelles dal titolo “Le sfide sociali, economiche e politiche in Iraq”, alla quale hanno partecipato importanti esponenti della società civile irachena. Tra questi era presente Salma Jabbo, del Centro per la formazione e lo sviluppo per le vedove (sostegno alla partecipazione delle donne nelle riforme socio-economiche). Anche gli altri relatori erano tutte donne. Ho voluto dare a questa audizione un’impostazione tutta al femminile perché dalla mia visita di pochi giorni fa in Iraq ho avuto la percezione che senza il contributo e l’attiva partecipazione delle donne il Paese non potrà risollevarsi e crescere.

L’Iraq è oggi un Paese che cambia velocemente, in continua evoluzione, e che ha una grande volontà di rafforzare i propri legami con l’Unione. L’Ue ha oggi in Iraq solamente due funzionari e un ambasciatore. Tre persone che operano nel compound britannico. A Bahamas ci sono sette funzionari Ue. La domanda che l’Europa si deve porre è essenzialmente se ci siamo dotati di strutture adeguate. Le istituzioni Ue sono in grado di soddisfare al meglio le aspettative degli iracheni? Io dico che l’Ue deve ripensare i termini della propria presenza nel Paese.

Se ha senso parlare di una politica estera europea e se l’Ue vuole essere protagonista sullo scenario della pace e della guerra dobbiamo farlo soprattutto su questioni come l’Iraq, dove in passato ci siamo spaccati e divisi. Questioni sulle quali il nostro bagaglio di democrazia, di libertà e di amore per il bene comune possono davvero essere sventolati come la nostra bandiera.

È una sfida per noi rilevantissima dal punto di vista dell’immagine e della credibilità di una politica estera che prosegue tra tentennamenti e illusioni. Ovviamente non va trascurata l’importanza strategica di questa sfida: ottenere la fiducia del popolo iracheno grazie a una politica di aiuti che possa davvero fare intravedere loro spiragli di pace e benessere smorzerebbe in un solo colpo buona parte dell’ostilità esistente nei confronti del mondo occidentale.

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