Francesco, verità nella carne

Papa Francesco ieri è stato prima a Prato e poi a Firenze, dove si svolge il V convegno della Chiesa italiana. "Mi piace una chiesa inquieta", questa la sua consegna. GIUSEPPE FRANGI

Diciamocelo: davanti al discorso del papa pronunciato ieri in Santa Maria del Fiore, la cosa migliore sarebbe quella di armarsi di matita e di evidenziatore e mettersi umilmente a leggere riga per riga; a leggere e rileggere per assimilare. È un discorso sul quale è difficile dire, tanto è chiaro, trasparente, concreto. Più che un discorso si è trattato di una sorta di paterno vademecum pensato per rendere più umana la vita di ciascuno. Si potrebbero estrapolare i punti, e fare un indice sintetico di questo vademecum a partire dai tre “sentimenti” in cui Francesco ha voluto identificare «alcuni tratti dell’umanesimo cristiano». “Sentimenti” li ha definiti: parola bellissima, sfumata, quasi delicata. Parola priva di ogni imperativo, parola che si genera dalla carne, che non si sovrappone alla vita, ma che scaturisce dalla vita. “Umiltà, disinteresse, beatitudine” sono i tre “sentimenti” che Francesco ha messo in rilievo ieri con molta semplicità, per far capire che l’umanesimo cristiano non è quello che si origina da «una certa idea di uomo» ma è soltanto quello che «nasce dall’umanità del Figlio di Dio». Un’umanità che è caratterizzata, tra le altre cose, proprio da quei tre sentimenti. 



In un certo senso l’umanesimo di papa Francesco lascia per strada quella desinenza in “esimo” e diventa più stringatamente l'”umano”. Ce ne si accorge ad esempio nel passaggio stupendo del discorso-vademecum in cui ricorre ad una citazione di Guareschi (quanti omaggi al «genio del cristianesimo italiano» ha fatto il papa; genio che non è un patrimonio di singoli o di un’élite, ma «è della comunità, del popolo di questo straordinario Paese»). Don Camillo per Francesco diventa l’emblema di questo umanesimo-umano nel momento in cui di sé stesso dice: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere di loro». L’umanesimo come vicinanza alla gente; come nel caso del vescovo — altro esempio proposto ieri da Francesco — che sballottato in una metropolitana sovraffollata, capisce che ciò che lo fa stare in piedi, oltre che la preghiera, «è la sua gente». Percezione fisica, non solo una bella idea; esperienza assolutamente concreta, non solo buona sensibilità. Che cosa c’è di più chiaro e persuasivo per un pastore che immaginare l’umanesimo come «un essere sostenuti dal proprio popolo»?



È la contiguità con il popolo che richiama ad ogni istante il fatto che la verità passa attraverso la tenerezza della carne. C’è chi lo dimentica: e così, ha detto il Papa, nasce la tentazione dello gnosticismo, che pretende di proporre una trascendenza senza incarnazione. Che teme la contiguità con il reale e si rinserra nei circoli chiusi dei propri ragionamenti logici e chiari. 

E oltre allo gnosticismo c’è l’altra tentazione, quella pelagiana. Che inganna, perché riveste di un’apparenza di bene la volontà di controllo della realtà; la fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni o nei codici morali come fattori risolutivi dei problemi e portatori di salvezza (perdonate l’inciso: gnosticismo e pelagianesimo, proprio come intuito negli editoriali de Il Sabato, anno 1989, frutto del “genio cristiano” di don Giacomo Tantardini, che non a caso è stato sacerdote a cui Bergoglio fu molto affezionato).



C’è infine un’altra parola che Francesco inserisce in questo suo vademecum per l’umano. È la parola “inquietudine”. Essere umani significa essere inquieti. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta», ha detto; cioè vicina a tutti quelli che non hanno quiete: «gli abbandonati, i dimenticati, gli imperfetti». Vicina per condividere ed esser una chiesa che «accompagna e accarezza». Non si deve sfuggire l’inquietudine, perché la vita pone domande per le quali non valgono le risposte preconfezionate. L’inquietudine è ciò che ci fa liberi e aperti, «mai in difensiva nel timore di perdere qualcosa». Coraggiosi perché non si confida su se stessi.  

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