È naturale che produca un brivido lungo la schiena: in Belgio è stata approvata l’eutanasia infantile con il sostegno del 74% della popolazione. Come hanno dimostrato molti pediatri, la legge non è necessaria: la medicina ha i mezzi per evitare la sofferenza attraverso le cure palliative per i malati terminali. Non c’è dubbio che la disumanizzazione stia avanzando in quei paesi che, in teoria, dovrebbero essere l’avanguardia dei diritti fondamentali.
I nuovi diritti (una sorta di supermercato dell’autodeterminazione) sono diventati contrari alla vita. In nome della compassione si autorizza la “dolce morte” per i bambini. E non si tratta di un caso isolato. Non ci vuole un genio per capire che la relazione della Commissione Onu per i diritti dell’infanzia contro la pedofilia nella Chiesa ha un obiettivo preciso: piegare la Santa Sede. Il Vaticano si è sempre opposto al fatto che l’aborto sia riconosciuto come un diritto nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva. Il modo in cui si sta svolgendo il dibattito sulla regolamentazione dell’aborto in Spagna mostra fino a che punto i dati oggettivi della realtà (una gravidanza) possono essere visti come nemici della libertà. In Francia solamente il momento di estrema debolezza di Holland e il successo delle manifestazioni di Manif Pour Tous hanno impedito che andasse avanti un riforma della legge sulla famiglia di tipo radicale.
Tutto questo avviene nell’ambito di quel che tradizionalmente è chiamata “vita”. Ma c’entra anche con il grande cambiamento epocale: il rifiuto dell’altro. La xenofobia crescente in Europa è anche espressione di un profondo “deficit antropologico”. Vedremo che risultati avranno partiti come il Fronte nazionale de Le Pen, il Partito per la libertà dell’olandese Geert Wilders o il Partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, solo per citarne alcuni, alle prossime elezioni europee.
Sembra che sia destra che a sinistra si stia lottando per la leadership della “abolizione dell’uomo”. Perché è di questo che si tratta, del risultato di una concezione antropologica in cui “l’uomo è l’essere in cui l’agire non deriva dall’essere, ma il cui essere deriva dall’agire” (Finkielkraut).
Cosa dobbiamo fare allora? Rompere definitivamente la nostra carta d’identità di “moderni” per rifugiarci nel lamento o nel sogno di una ricostruzione impossibile? Sarebbe un modo per non fare i conti con quel che sta succedendo. Perché insieme a questi segni di disumanizzazione dell’arte di vivere, appaiono altri segnali di un momento che è necessario salvare. Dopo le ideologie che dagli anni ‘50 hanno dominato l’Europa, l’inizio di questo XXI secolo è molto più concreto. In un contesto sincretista, l’esigenza di significato appare in forme molto differenti e con una forza sconosciuta 20-30 anni fa.
La disumanizzazione non impedisce che ci sia un’apertura, una ricerca e una sincerità nuove. Persino in Spagna, Paese in cui il franchismo, per il suo carattere confessionale, ha lasciato un’eredità nefasta per la religione, si respira in modo diverso. Le produzioni cinematografiche degli ultimi anni ne sono un’espressione (basti pensare al successo che ha avuto “Nebraska” di Alexander Payne, un film che sembrava di nicchia). Riappare con frequenza la figura del padre, la ricerca di una tenerezza che sia definitiva sta diventando ossessiva, il fallimento viene considerato positivo…
Ma c’è di più. Il padre che pensa che la morte di suo figlio sia la soluzione migliore per evitargli la sofferenza; la ragazzina che cercava l’amore della sua vita ed è rimasta incinta e vede nell’aborto una risposta; la madre che da anni cura un malato terminale e che ora non ha più la forza per andare avanti; il vicino che non riesce a sopportare il musulmano o il cristiano che ha sotto casa perché non sopporta se stesso… Tutti loro sono uomini e donne concreti. E in loro l’uomo non è abolito.