«I Magi, nell’ombra, in quel buio di stalla / sussurravano, trovando a stento le parole. / A un tratto qualcuno, nell’oscurità, / con una mano scostò un poco a sinistra / dalla mangiatoia uno dei tre Magi; / e quello si voltò: dalla soglia, come in visita, / alla Vergine guardava la stella di Natale».
Era il 1947, quando Boris Pasternak lesse per la prima volta questa sua poesia, “La stella di Natale”, in casa della pianista Marija Judina. E lei gli chiese in dono il testo autografo, che conservò gelosamente per tutta la vita nel suo libro di preghiere.
A decine di migliaia di russi il Natale, che la Chiesa ortodossa celebra in questi giorni, venne restituito in quegli anni attraverso le immagini di questa poesia; in un’epoca in cui la religione era relegata nel chiuso degli edifici di culto, limitata al puro rito, la funzione di testimonianza venne assunta dalla letteratura, dalla poesia, dalla musica — insomma, dall’arte. Come avrebbe scritto a Pasternak un altro poeta, veterano dei campi, Varlam Šalamov: «Ma si rende conto, che è grazie ai suoi versi che siamo rimasti uomini? In lager leggevamo le sue poesie come preghiere».
Proprio a un poeta ebreo, battezzato di nascosto — dietro sua richiesta — dalla bambinaia, cristiano «anomalo» per molti versi, sarebbe spettato di tradurre secondo la sensibilità del nostro tempo le immagini di antichi e densi testi liturgici della tradizione d’Occidente e d’Oriente, che cantano lo stupore del creato di fronte all’umanità assunta da Dio. E in effetti, come non sentire l’eco, nell’immagine ingenua e limpidissima della Stella che fa capolino sulla soglia della grotta per contemplare il mistero della Natività, ad esempio, dell’inno Alma Redemptoris Mater: «…tu quae genuisti, natura mirante, tuum sanctum Genitorem»; oppure, del tropario di Natale, dalla liturgia bizantina: «Che cosa ti offriremo, o Cristo, che per noi ti sei fatto uomo sulla terra? Ogni tua creatura ti rende grazie: gli angeli ti offrono il canto, il cielo la stella, i Magi i doni, i pastori lo stupore per il miracolo, la terra una grotta, il deserto una mangiatoia; e noi ti offriamo una madre vergine».
Questa particolare funzione profetica, «epifanica», rivelatrice del mistero sotteso a ogni aspetto del vivere, è una costante della cultura russa nel XX secolo. Sono tanti, oltre ai giganti come Pasternak, gli «invisibili» (come li chiamava Solženicyn), che hanno tenuto desta l’umanità, dentro di sé e in chi li circondava.
In questi giorni è scomparsa Elena Cukovskaja, lei stessa scrittrice, figlia della scrittrice Lidija Cukovskaja e nipote di uno dei più grandi scrittori per l’infanzia che vanti la Russia, Kornej Cukovskij. Elena, insieme alla madre, è stata fra gli «invisibili» che per anni, a rischio della libertà, hanno coadiuvato Solženicyn nella titanica impresa di scrittura dell’Arcipelago Gulag.
E fino all’ultimo, mite e fragile, è stata una voce libera e coraggiosa nel denunciare l’ingiustizia, ma soprattutto nell’affermare l’altra possibilità di vivere — senza menzogna, da uomini, da cristiani — che non è mai tolta alla persona, in nessuna situazione, in nessuna circostanza.
E come lei, tanti, che incontriamo quotidianamente, su internet, sulla stampa, alla Biblioteca dello Spirito, attraverso i casi della vita; persone che ci mostrano come dietro i re magi — simbolo del desiderio umano in cammino verso il vero — veniamo anche noi, accomunati a loro dallo stupore per una bellezza che continuamente scaturisce secondo rivoli impensati e traccia sempre nuove vie, a testimonianza che è lo Spirito, a dispetto delle trame dei potenti, il vero protagonista della storia.