La strage di mercoledì scorso a Parigi, nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, ha raggrumato nelle nostre menti e nei nostri cuori una fitta ombra di domande e di angosce.
Innanzitutto perché il terrorismo islamista mostra la sua capacità di colpire nel cuore delle nostre città che si scoprono indifese, di insinuarsi nella quotidianità inerme di una vita lavorativa comune. Siamo fragili di fronte al suo attacco.
Inoltre, e più acutamente, quell’ombra riguarda il nostro futuro. Molti – su questo giornale Luca Doninelli nell’editoriale di giovedì scorso – hanno segnalato l’inquietante concomitanza dell’attentato con l’uscita nelle librerie dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione. Vi si immagina che la Francia del prossimo futuro sarà governata da un partito islamico, all’esordio moderato ma poi sempre più determinato – attraverso (cosa molto significativa) l’occupazione del ministero dell’educazione – a impiantare saldamente sul suolo francese la propria visione del mondo. Quello che qui mi interessa – il romanzo non l’ho letto perché in Italia esce questa settimana, ma ci sono state delle anticipazioni – è quanto l’autore afferma a riguardo del cedimento della Francia laica e illuminista di fronte alle sirene dell’islam al potere.
La ragione di tale cedimento – dice Houellebecq – è che l’uomo contemporaneo, laico e illuminista appunto, è così privo di risorse interiori, è così stanco di portare il peso della pur sbandierata libertà di pensiero, di scelta in ogni campo della vita, di ipertrofica esaltazione delle infinite possibilità di quella stessa libertà, che accetta la prospettiva di abbracciare una religione. Ma non è – come qualcuno aveva vaticinato nel Novecento – la religione cristiana, bensì quella islamica, il cui fulcro sarebbe appunto la sottomissione del titolo (è infatti questa la traduzione letterale della parola islam).
Nel romanzo – sempre stando alle anticipazioni – c’è anche un momento in cui il protagonista, che poi si farà musulmano, pensa di diventare cristiano, ma l’approccio con la fede tradizionale della grande storia europea non lo convince. E per forza (questo lo dico io): il cristianesimo ha una stima che più alta non si potrebbe della libertà umana e non ha mai accettato l’ipotesi che una sottomissione anche precisa a delle regole esteriori possa sostituire l’abissale dramma della adesione libera.
Non manca, certo, neppure per il cristiano la tentazione di abdicare alla propria libertà in favore di uno scheletro esterno di presunte certezze, siamo esse associative, formali, morali o dogmatiche. Ma si tratta, appunto, di una tentazione.
All’inizio della storia cristiana non fu così; il fascino quasi invincibile della nuova fede era prodotto proprio dall’esperienza inaudita di una libertà che attinge il suo contenuto non nella possibilità di far quello che si vuole, non nell’infinitezza delle opzioni che ci si permette, ma molto più al fondo. È la libertà dei martiri che entravano nell’arena cantando, la libertà dello schiavo frigio imprigionato insieme a Barabba nell’omonimo romanzo di Lagerkvist; libertà che coincide con una sicura appartenenza, con un rapporto che non viene meno. La libertà fa paura quando è una solipsistica presunzione di onnipotenza, sempre delusa; è invece in pace, pur nel dramma, se è l’abbandono di un figlio – «Padre nostro» – e non la sottomissione di un servo. Per non morire l’Europa ha bisogno di esempi di tale libertà.