Fine dell’estate, ritorno alla realtà?

Si alimenta in noi l'illusione che possa esistere qualcosa che ci risolva la vita per sempre. E' il sogno che domina le ferie. E il "rientro" diventa un dramma. FEDERICO PICHETTO

Quando tramonta l’estate, si riprende il lavoro o con un pizzico di nostalgia, e un po’ di rassegnazione, oppure con la “carica” derivante dalle tante cose belle viste e capite durante questo tempo speciale dell’anno. In poche parole, sia nell’uno che nell’altro caso, si rischia di ricominciare da un preconcetto. Nel primo caso, infatti, si crede di sapere già che, in fin dei conti, quello che si andrà a vivere sarà qualitativamente “di meno” rispetto alla libertà respirata nei giorni del riposo; nel secondo caso si presume che l’energia ricevuta dall’esperienza sia sufficiente da sola a fronteggiare e a cambiare tutto. 

Insomma: o si suppone di conoscere già il finale della storia o ci si illude che quello che ci è capitato in vacanza possa risparmiarci il lavoro della libertà, della quotidiana scelta e del quotidiano errore. 

Per fortuna in agguato c’è lei, la Santa più potente che esista: Santa Realtà. Il suo compito è quello di far emergere, in pochi secondi o in qualche settimana, che cosa sia davvero accaduto in noi durante le settimane estive. Siamo cambiati oppure no? Siamo sempre arrabbiati e cattivi, con qualche foto in più sui social e qualche bella nuova frase ad effetto da usare come mantra per andare avanti, oppure sta succedendo in noi qualcosa di incredibile? Spetterà a noi fotografare come stanno davvero le cose quando la realtà le farà emergere. Basterà la solita frase di nostra moglie o di nostro marito, la faccia del collega di lavoro, le frecciatine del vicino di casa o la prima multa per divieto di sosta per rendersi conto di come abbiamo vissuto il tempo che ci è stato dato. Con le parole e i ragionamenti si può imbrogliare, con i fatti no. 

Ogni anno, nel momento in cui il ritmo del lavoro riprende il suo corso, la domanda che ci si presenta è sempre la stessa: abbiamo noi ancora qualcosa da imparare oppure sappiamo già tutto? Siamo disponibili a tornare alla scuola della realtà per incontrarla, prenderne consapevolezza e capirla sempre di più? Torniamo annoiati e “soddisfatti” o curiosi e aperti a quello che possiamo trovare? La cosa interessante è che negli altri noi scorgiamo subito in quale atteggiamento sono immedesimati, ce ne accorgiamo e magari lo commentiamo pure, facendo così il primo pettegolezzo dell’anno; mentre in noi è come se tutto congiurasse per tenerci nascosta la verità, l’evidenza di tutto il cammino che ancora occorre fare. 

Perché accade questo? Perché in fondo le vacanze, o le testimonianze degli altri, a volte ci piacciono perché ci rassicurano sul fatto che la vita, ad un certo punto, incontra il suo “lieto fine”. Se ci fate caso lo schema delle ferie o di molti racconti è sempre lo stesso: prima le cose andavano male, eravamo stanchi, poi, ad un certo punto, abbiamo incontrato un Paradiso e tutto è andato per il meglio, tutto si è aggiustato. 

Il fatto singolare è che questo processo accade sia con un viaggio meraviglioso che con un testimone: si alimenta in noi l’illusione che possa esistere qualcosa che ci risolva la vita per sempre. E’ quello che succede ai cinquantenni quando si innamorano o a certi ragazzi quando si ribellano ai genitori: affermano, ma in realtà sperano, che il gesto che stanno per compiere — separarsi o trasgredire — restituisca loro la tanto amata libertà. Noi sogniamo un posto, o un’esistenza, dove la realtà non esiste più, dove il peccato e l’errore non esistano più, dove in ogni istante ci si senta sempre adeguati e mai sbagliati o fuori posto. 

Ma una cosa così non esiste nel tempo, non esiste nella storia. Tutti i testimoni, tutte le località da sogno, hanno molta realtà dietro la “cartolina”, una realtà che non si fotografa, che non si racconta, ma che c’è e che è quella che permette proprio il lavoro necessario a capire e a riconquistare certe parole, certe verità, certe sicurezze, che ormai si erano annebbiate. Ricominciare significa proprio questo: essere certi che la mia vita non si fonda sui “miti” o sui sentimenti, ma che si costruisce attraverso l’esatto sconosciuto punto di mondo in cui mi trovo a vivere, il posto che mi è stato assegnato e che — anche se non me ne accorgo — è il luogo dove può avvenire il miracolo più grande, quello di dare del “Tu” al Mistero che là dentro, in quell’apparentemente insignificante brandello di storia, mi aspetta. Per ricominciare, ogni mattina, a camminare.

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