Il rottamatore senza lavoro

I dati sull’occupazione diffusi ieri rendono evidenti i limiti del mercato del lavoro italiano, cui potrebbero non servire molto le ricette di Matteo Renzi. L'editoriale di LUCA SOLARI

I dati sull’occupazione a gennaio 2014 resi pubblici da Istat ieri hanno confermato la situazione difficile del mercato del lavoro. La disoccupazione ha toccato il 12,9% e il suo peggioramento non da segni di rallentamento, mentre la quella giovanile (15-24 anni) è anch’essa salita al 42,4%. Scorrendo i dati più specifici colpisce la crescita degli occupati con più di 50 anni a fronte di un pesante arretramento anche sul fronte degli inattivi (sebbene il dato mensile indichi un’inversione di tendenza).



Le statistiche sul lavoro ripropongono con cruda attualità le vere ragioni della crisi economica e sociale dell’Italia che non è risolta solo perché cresce la fiducia sui mercati e i collocamenti del debito migliorano sia per quantità, sia per livello dello spread. Sebbene la disoccupazione giovanile sia una criticità per tutta l’Europa, infatti, l’Italia è uno dei paesi, dove il fenomeno è più marcato. Anche una ricerca presentata di recente da McKinsey ha evidenziato come i fattori congiunturali contribuiscano a questo fenomeno in modo rilevante, ma non esclusivo con un peso significativo che va attribuito al disallineamento tra il sistema educativo e quello produttivo.



Questa considerazione è un dato di partenza importante per sviluppare alcune riflessioni sul possibile impatto del Jobs Act, ovvero dei punti pubblicati a gennaio da Matteo Renzi prima della decisione di prendere la responsabilità del Governo. Nel Jobs Act, Renzi ha riproposto la semplificazione delle norme sul lavoro e delle forme contrattuali, unitamente alla definizione di un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti, non meglio specificato. Va detto, infatti, che la proposta di contratto unico è un leit motiv del dibattito sul mercato del lavoro già dal 2011, quando si sono confrontate la proposta Boeri-Garibaldi (con reinserimento delle tutele dell’articolo 18 dopo il triennio iniziale) e quella Ichino (con un incremento della tutela economica dopo il triennio, ma senza l’applicazione dell’articolo 18) e per ora Renzi non ha esplicitato a quale ipotesi si voglia rifare.



Personalmente, pur condividendo la diagnosi di un sistema troppo complesso nella regolazione dei rapporti di lavoro, ho già in passato ricordato come il tema della facilitazione della transizione al lavoro, soprattutto per i giovani, non sia solo un tema di costo e di flessibilità, ma riguardi altre importanti condizioni da creare o facilitare. Sempre per questo motivo, pur auspicando che si metta mano al cuneo fiscale, non penso che possa rappresentare un’azione risolutiva dei problemi del mercato del lavoro.

In primo luogo, il nostro mercato del lavoro non ha la fluidità necessaria a rendere facilmente disponibili le informazioni che aiutino l’incontro tra domanda e offerta. Il sistema del collocamento pubblico è infatti marginale e nemmeno l’avvento delle società di ricerca e selezione è bastato a colmare questo gap. Le iniziative nazionali hanno partorito costosi topolini come il sistema delle professioni di Isfol.

In secondo luogo, in parte in relazione alla mancanza di dati e informazioni di dettaglio sui fabbisogni del mercato del lavoro, l’orientamento scolastico e professionale è nella grande maggioranza dei casi gestito in modo volontaristico dentro le scuole. Scuole, va detto, che peraltro sono organizzate in modo rigido, obbligando di fatto a una scelta molto anticipata rispetto alla comprensione dei propri talenti e delle proprie inclinazioni.

In terzo luogo, la formazione permanente e continua è in larga misura affidata a processi di finanziamento che hanno preso della bilateralità gli aspetti più deteriori (pur se con importanti eccezioni) e che sono più orientati all’acquisizione dei finanziamenti che a una vera e profonda attività di analisi dei fabbisogni.

Su questi aspetti nel Jobs Act si parla di creare un’Agenzia unica federale che dovrebbe raccordare l’azione, ma non se ne definisce né la forma, né la logica a cui è ispirata. Diviene quindi difficile capire se potrà colmare questi tre importanti vuoti e se non correrà il rischio di trasformarsi in un ennesimo contenitore, più che in un vero organo di coordinamento operativo.

In sostanza, la lettura attenta del Jobs Act, nella sua forma quasi essenziale, sembra proporre un mutante ideologico che unisce la riduzione dei costi di regolazione del lavoro e coordinamento (di pura ispirazione economica e di mercato) con un irrobustimento del controllo pubblico sul fronte delle altre questioni appena discusse (di chiara impronta centralista e burocratica).

Questa confusione ideologica, lungi dal riprendere la terza via di Blair, sembra il frutto di un limite che la politica del lavoro in Italia non riesce proprio a superare, nemmeno nel suo interprete meno ortodosso, Matteo Renzi, ovvero l’idea che la soluzione sia da cercare nella regolazione e non nella facilitazione di processi emergenti e locali, magari con una particolare attenzione al binomio occupazione e ristrutturazione.

A mio parere, l’eterogeneità del territorio e delle problematiche locali in Italia è tale che il quadro di controllo centrale, se deve esserci, non può che essere dedicato alla raccolta di informazione, alla sua circolazione e diffusione e alla valutazione degli interventi sul territorio. È in sede locale che si devono trovare soluzioni di micro-sistema con processi partecipati di coinvolgimento delle parti sociali e dell’amministrazione che non si fermino al tavolo di progettazione, ma che guardino alle diverse possibili soluzioni con l’ottica del miglioramento continuo, per renderle poi disponibili come buone prassi ad altri territori.

L’attore pubblico dovrebbe facilitare progetti che nascano dalle realtà dove il fenomeno della disoccupazione, in particolare giovanile, è elevato, garantendosi con l’indicazione chiara e trasparente di obiettivi e modalità di valutazione degli eventuali investimenti. Solo progetti che mettano in sintonia i sistemi educativi, compresa l’università, quello produttivo e gli attori sul territorio su obiettivi mirati e specifici possono contribuire ad affrontare il vero nodo che è di rilanciare la produttività, orientando in direzioni diverse lo sviluppo economico. 

Pensare che una semplice riduzione del costo del lavoro possa porre freno a questa che è la vera emorragia del sistema Italia è spostare il problema di qualche anno. Ma pensare che possa essere il Governo centrale o l’attore pubblico a indicare la strada per lo sviluppo (o peggio crearlo drogando il mercato con incentivi) è allo stesso modo poco realistico.

Matteo Renzi ha visitato H-Farm qualche giorno fa. Speriamo ne abbia tratto con chiarezza l’idea che lo sviluppo non nasce solo da un’occupazione marginale, ma dall’investimento sulla qualità del capitale umano.

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