S’avvicina la notte degli Oscar, e sarà una notte che i media italiani vivranno spasmodicamente nell’attesa di un riconoscimento per La grande bellezza, il film di Sorrentino. Nel frattempo ci siamo lasciati alle spalle un Sanremo infarcito sino alla nausea di apologie della bellezza del nostro paese, intervallate dai rituali necrologi sulle disfatte nella custodia dei nostri tantissimi beni culturali. Insomma, il tema della bellezza tira. È diventato un mood, un passaparola che commentatori, politici, scrittori, comici, ambientalisti, conduttori si rilanciano, come sciacquandosi la bocca con il suono per altro bellissimo (scusate il gioco) di quella parola.
Ma di che bellezza stanno mai parlando? Mi auguro che non sia quella, un po’ irreale e comunque al fondo tristissima del film di Sorrentino, un film che per quel che mi riguarda ho trovato presuntuoso nel suo paragonarsi con un grande film che ha fatto la storia, e non solo quella del cinema, come La dolce vita. Ma non è questo il punto. Il punto è che la bellezza di cui quel film s’è eretto a testimonial, è un qualcosa di malinconicamente esteriore, per di più ostaggio di un contesto e di una storia funerei.
Intanto si continua a predicare che la bellezza è una risorsa per un paese come il nostro che non riesce a liberarsi dal pantano di questa crisi infinita. Ma la bellezza così come viene tirata in ballo è poco più che un soprammobile, un artificio retorico a cui non crede nessuno e che, soprattutto, nessuno conosce nella sostanza e nella sua concretezza.
È solo uno slogan culturalmente corretto e patinato, così scontato da non trovare nessuno che si possa dire contrario. È una visione un po’ da mondo (e paese) delle favole. Tanto che vien la nostalgia di quando quella parola veniva associata istintivamente ad una diva del cinema, a una top model: una parola ancora in carne ed ossa. Ora invece anche la bellezza è stata trasformata in un’esperienza nevrotica, favoleggiata da Cassandre che sanno solo sognare un’Italia che non c’è più (e che non c’è mai stata).
Intediamoci, l’Italia è davvero un concentrato meraviglioso di bellezza. Ma questa bellezza non è mai qualcosa di assoluto, cioè da cartolina. È sempre necessariamente precaria e sporca perché il tempo e la vita vi passano sopra. È una bellezza che è impossibile slegare sia dalla storia che l’ha generata sia dalla vita che le ronza attorno. E che chiede passione e conoscenza.
È una bellezza che sperimenta a volte dei rovesci a volte delle rivincite: non da oggi, ma da sempre. Per un monumento che versa in pessime condizioni, ce ne sono probabilmente cento che ogni mattina aprono fedelmente le porte, magari a sparuti visitatori.
La bellezza infatti è molto paziente, e non ha nulla a che vedere con l’insolenza retorica dei nostri soloni. Soprattutto non si dà bellezza che non abbia a che fare con la vita, che non si intrecci ogni istante con lei. Se non c’entra con le speranze, con le attese, con le fatiche e anche con le ferite di ogni giorno, è solo un orpello per accademici. La bellezza non è un feticcio, ma è un’esperienza aperta, che si riversa sempre nell’occhio e nel cuore di chi ne fa esperienza. Non è mai uguale a se stessa, proprio perché è un rapporto, una relazione, un’esperienza. Anche la bellezza di Michelangelo è meravigliosamente variabile.
Tra i testimonial invitati a Sanremo è arrivata anche una scapigliata e vivacissima direttrice di museo, Cristiana Collu del Mart di Rovereto. Quando Fazio le ha rivolto la solita, scontatissima domanda, “Cos’è per lei la bellezza?”, ha risposto con un po’ di sfrontatezza: “Avrei preferito che non mi facesse questa domanda”. Siamo tutti con lei. Per favore, non riduciamo la bellezza ad un gioco di società.