Pensavo a che cosa dire per l’inizio della Quaresima. Mi era venuto in mente di parlare dei Vangeli dell’anno A che, nel rito romano, sono un magnifico cammino di umanità e di speranza. Poi alcuni dialoghi durante la benedizione delle case mi avevano convinto a cambiare tema e a trattare molto più semplicemente il valore della Quaresima nella tradizione della Chiesa, riprendendo il senso del digiuno, dei fioretti e dell’astinenza. Indubbiamente erano tutte idee molto buone, ma idee della mia mente, idee che non avevano fatto i conti con lo straordinario tramonto che qui tra le montagne colora le cime di rosa e svela – a chi è attento – la promessa che Qualcuno, chissà come o chissà quando, ha fatto al nostro cuore. Io – infatti – non so perché esisto, perché ci sono, eppure mi rendo conto che Qualcuno ostinatamente mi vuole. E non so perché. Eppure quel tramonto è lì a dirmi, a urlarmi: “io ti voglio”. È come se tutta la natura fosse ferma – muta e sospesa – in trepida attesa di una mia risposta. Ed è come se lo fosse ogni giorno, in ogni ora. È allora, in quel rapido istante di consapevolezza, che mi vengono alla mente tutti i miei “peccati”, che il cuore mio si strugge al solo pensiero di quanto sia piccolo e meschino e di come io non voglia essere così.
Ci sono notti in cui tutto questo mi fa pensare che il giudizio finale non consisterà tanto in un processo quanto in un elenco, l’elenco che il diavolo farà di tutti i miei peccati di fronte a Dio e di fronte alle persone che ho amato e che mi hanno voluto bene. Immagino di essere lì in mezzo, col desiderio di fuggire, col dolore di chi sa che con le proprie azioni non ha fatto male solo a se stesso, ma ad ogni persona che ha creduto in lui e che su di lui ha investito un tratto del proprio bene e del proprio cuore. In quelle notti ammetto che mi viene da piangere e da pregare, mi viene da mendicare con tutto me stesso di essere un altro, di non dover sempre ignorare e nascondere, anzitutto a me, il male di cui io – proprio io, il prete – sono capace. E capisco che questo desiderio è proprio il gioco del demonio perché Dio non ha fatto tanta strada, la strada che separa il Cielo dalla Terra, perché io desiderassi essere un altro: Dio si è incarnato perché io imparassi a desiderare di essere me stesso, perché io imparassi a dire – anche davanti al mio male e al mio peccato – : “questo sono io”. Questo sono io, mamma; questo sono io, papà; questo sono io, amore mio; questo sono io, figlio mio; questo sono io, caro amico. E così come sono, per quello che sono, Qualcuno ha deciso di amarmi, Qualcuno ha deciso di salvarmi.
In questo modo, grazie a questa piccola luce, ho capito che cos’è la Quaresima: non il tempo in cui io faccio qualcosa per Dio o il tempo in cui dimostro a me stesso di essere superiore alla mia animale natura, ma il tempo – piccolo e semplice – in cui imparo a dire il mio nome e a non nascondere tutta la storia di nobiltà e di miseria che dietro a quel nome è custodita. Il mio nome, la mia storia, portano con sé un’esigenza radicale che io non posso più nascondere, che io non posso più insabbiare dietro alle parziali domande che scandiscono la mia giornata, i miei pensieri, i miei discorsi. Io non cerco mio padre e mia madre, non cerco mio figlio o mia sorella, non cerco un lavoro o una morosa, non cerco neppure di recuperare chi ha separato la sua strada dalla mia: Io cerco qualcuno che mi salvi, qualcuno che mi ami. Io cerco Te, o Cristo.
Non so che cosa voi stiate pensando per la Quaresima. Io ho pensato che sarebbe bello piangere. Piangere fino alle lacrime. Fino a percepire tutta la portata del mio cuore e della mia carne, fino ad urlare – nel silenzio di quest’ora – tutto il mio bisogno umano che niente, nessuna gloria o nessuna battaglia, potrà mai colmare. Perché quello che capisco è che io non sono un Santo. Non sono uno che fa così tutto bene da non aver più bisogno di Dio: io sono un urlo, un Desiderio. E non ho altro modo per esprimere tutto questo se non quelle parole che, nella mia breve e forse meschina vita, ho imparato a dire tra le lacrime: “Vieni Signore Gesù”. Già, vieni Signore perché ho peccato. Vieni, Signore, perché davanti a Te non ho più bisogno di barare o di far finta di essere un altro: posso piangere, posso dire, posso finalmente accarezzare, e guardare con simpatia, questa povera umanità che Tu hai creato e che hai permesso che ciascuno di noi potesse chiamare, misteriosamente e definitivamente, Io.