I britannici si accingono davvero a pagare fino in fondo un conto-Brexit inesorabilmente annunciato? La sterlina ha perso il 17% nel dopo-Brexit e il rendimento di mercato dei Gilt a dieci anni (il titolo di debito governativo benchmark nel Regno Unito) ha toccato i massimi dal referendum, mentre l’ultimo arretramento mensile del prezzo è stata il più elevato dal 1992. Nella City la preoccupazione cresce a vista d’occhio allorché il premier Theresa May sembra accelerare verso una Hard Brexit, tuttora trainata di forti umori anti-immigazione che hanno deciso il leave del 23 giugno. Nè mancano le spinte tattiche di Bruxelles, Berlino e soprattutto Parigi.
Per un’ economia parecchio importatrice come quella britannica, svalutazione vuol dire probabilmente nel breve termine ripresa dell’inflazione, forse oltre il 3%. Lo ha apertamente ammesso anche il presidente della Bank of England, Mark Carney. Nessuna sorpresa che il rischio-Londra sia subito registrato dal debito pubblico: assieme a una visione economica non proprio positiva sulla Britannia neo-isolazionista. Le aspettative di ripresa dell’export grazie al deprezzamento della sterlina non scaldano i mercati. Pochi giorni fa ha impressionato invece un documento riservato del Tesoro di Londra, con ipotesi di caduta del Pil post-Brexit fino al 9,5 per cento.
Mentre sul Continente Brexit accende il dibattito fra sirene populiste e cassandre della fine del “sogno europeo”, in Gran Bretagna non mancano tuttavia dissenting opinions: di chi è certamente preoccupato per il futuro del egno Unito, ma non vuole essere catturato per forza dal cattivo umore della City di Londra, fra banche che tagliano posti di lavoro e bonus e prezzi immobiliari in caduta. Per esempio: pochi giorni fa sull’Independent – oggi solo digitale, per la proprietà del tycoon russo-londinese Alexandr Lebedev – ha scritto sul tema Andrew MacLeod. Un opinion maker poliedrico: avvocato e giurista, professore al King’s College di Londra e in un think tank di Washington, già dirigente umanitario dell’Onu in Pakistan. Anzitutto: australiano. Cioè: cittadino del Commonwealth e ben piantato nelle special relations anglofone Regno Unito-Usa. Cioò che non ha tuttavia impedito a MacLeod di fare campagna per il remain.
Non a caso, in un op-ed intitolato “The Commonwealth system could save post Brexit Britain from obscurity”, McLeod conferma subito di essere fra i “delusi” dal voto di giugno. Ma con classico pragmatismo d’Oltremanica, comincia subito a ragionare su una Brexit molto diversa da quella soft, quasi artificiale, su cui si affanna da quattro mesi il Financial Times (negoziati lunghi con l’Europa, su un ventaglio di opzioni intermedie: cominciare da un accordo “norvegese” che mantenga il Regno Unito nel mercato unico).
Se nel titolo è citato il “Commonwealth” della Corona Britannica, nel sommario è in evidenza la parola “Islanda” ma soprattutto la locuzione “Singapore d’Europa”. Rejkyavik è utile a MacLeod per una freddura su “un’isola la cui squadra di calcio ogni tanto ottiene risultati oltre le attese” (per di più l’Islanda, durante la crisi del 2008 è crollata sotto il peso di un sistema bancario offshore in buona parte impiantato dalla City). “Singapore d’Europa”- altro modello insulare – è invece tutt’altro che un’immagine ad effetto: evoca un’intera strategia possibile. Ambiziosa e impegnativa, ma tutt’altro che nostalgica. Visionaria, certo. ma non immaginaria.
“I tempi dell’Età Imperiale, chiaramente non torneranno mai”, taglia corto MacLeod. Oggi, tuttavia, la città-stato simbolo dell’espansionismo coloniale britannico è ancora “un’isola che sa tirare pugni molto al di là del suo peso”. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi Singapore di storia ne ha vista e fatta molta: dall’occupazione giapponese, all’indipendenza dalla Malaysia, fino all’attuale status di hub finanziario asiatico, cresciuto soprattutto dopo la ricongiunzione di Hong Kong alla Cina. E non è per caso che MacLeod mescoli subito il “vecchio” Commonwealth (53 paesi e 2,2 miliardi di abitanti del pianeta) con il “nuovo” e arrembante Apec. Nel club del paesi che si affacciano sul Pacifico si ritrovano gli Usa e la Russia, dalla Cina e Taiwan, le Filippine e il Giappone, il Cile e il Peru, l’Australia e la Nuova Zelanda (questi due ultimi parte del “nocciolo duro” del Commonwealth, con la Corona britannica al vertice degli Stati). Fino a Singapore: che nella sua bandiera non ha l’Union Jack ma la mezza luna eppure appartiene al Commonwealth dal primo giorno della sua indipendenza.
Al super-vertice Apec di Pechino nel 2014 – uno dei maggiori eventi politico-diplomatici degli ultimi anni – il Commonwealth c’era assieme a Xi Jinping, Obama e Putin; l’Europa no. E se in Europa Brexit è sinonimo di diplomazia cavillosa e rancorosa sull’articolo 50 e sui modi di riallargare in fretta la Manica-frontiera, fra Londra e l’Asia-pacifico MacLeod ragiona già attorno al possibile sviluppo della Apec Business Travel Card: un quasi-passaporto già oggi in valigetta di oltre mezzo milione di imprenditori e manager Apec che si muovono all’interno della macro-area con la stessa facilità del personale diplomatico. A proposito: dell’Apec fa parte anche il Canada (altro paese su cui la Regina Elisabetta non governa ma regna): il paese con cui l’Europa punterebbe a chiudere un mini-Ttip, provando a salvare la faccia dopo il fallimento dei negoziati di libero scambio con gli Usa. Ancora un’Europa che gioca al ribasso. Convinta che alla Gran Bretagna ben gli stia e che il disastro Brexit – presunto, previsto o solo sperato che sia – sia di monito a tutti gli europei attratti dall’eurofobia. Un’Europa convinta che il mondo giri sempre attorno alla (vecchia) Europa. E se fosse Brexit a lasciare spaesata la Ue? Come nei proverbiali annunci d’antan nei giorni di nebbia sulla Manica: “Il Continente è isolato” .