La “mano invisibile” è morta

Sono giorni vertiginosi per l’euro e il progetto di integrazione europea. Il risultato delle elezioni greche non riesce a dissipare i dubbi che pesano sulla moneta unica

Sono giorni vertiginosi per l’euro e il progetto di integrazione europea. Il risultato delle elezioni greche non riesce a dissipare i dubbi che pesano sulla moneta unica. Il salvataggio di Atene non ha mai avuto valore in sé: basti pensare che la sua economia rappresenta solo il 2% del Pil dell’Eurozona. La sua importanza sta nell’essere servito come termometro per misurare l’europeismo, la volontà di costruire un progetto sufficientemente solido per risolvere il problema di un piccolo Paese in bancarotta che non ha rispettato le condizioni imposte. Per la Grecia c’erano e ci sono risorse. Basterebbe rinegoziare le condizioni. La Merkel potrebbe persino salvare la faccia davanti ai suoi elettori.

La vera questione è che la Grecia ha provocato un effetto contagio in Spagna e in Italia. La partita che l’Europa gioca sui mercati si sta facendo durissima. Il salvataggio del sistema bancario spagnolo con la linea di credito fino a 100 miliardi di euro non è servito a ridurre la pressione sul debito sovrano. E lo stesso Mario Monti ha riconosciuto sabato scorso che l’Italia è di nuovo sull’orlo del precipizio. Le due settimane che ci separano dal Consiglio europeo del 28 e 29 giugno sono fondamentali.

I mercati agiscono con una logica implacabile. La finanza globale in questo momento permette di guadagnare un sacco di soldi scommettendo al ribasso. In questa lotta gli investitori-speculatori si fermano solamente quando viene dato un sostegno sufficientemente forte a chi è sotto attacco. È quello che ha fatto la Federal Reserve nei confronti del dollaro e del debito americano nel 2008.

Ciò che si rivela decisivo è il primato della politica sul mercato. Ormai sappiamo che la “mano invisibile” non funziona. Per avere più politica si deve superare il nazionalismo. La riunione preparatoria del G-20 che ha visto protagonisti i leader europei è stata la prova evidente di come il nazionalismo economico tedesco stia diventando un ostacolo per riuscire a dare una risposta efficace alla speculazione. Angela Merkel si è opposta con le unghie e con i denti agli Eurobond, una delle soluzioni che ci potrebbe salvare dalla catastrofe.

Questo momento in cui è in gioco il futuro dell’euro ricorda molto quel che è successo nel 1950. Adenauer affrontava un rigurgito di nazionalismo tedesco perché la Saar, regione produttrice di carbone, era rimasta sotto controllo internazionale. Di fronte alle pressioni che riceveva, il Cancelliere rispose con frasi molto forti: “Non c’è più un problema che sia esclusivamente tedesco o esclusivamente europeo”. Questo spirito fu quello che lo portò ad abbracciare immediatamente la soluzione che Schuman, l’allora ministro degli Esteri francese, aveva ideato – con l’aiuto imprescindibile di Monnet – per risolvere la questione. L’antica rivalità franco-tedesca, che tanti morti aveva causato, venne risolta con la gestione comune di carbone e acciaio nella Ceca, il germe dell’Unione europea.

Nella dichiarazione pubblica rilasciata nel Salone dell’Orologio del Quai d’Orsay, con cui nacque la Ceca, si dice chiaramente che “non è più una questione di vane parole, ma di un atto audace”. Quest’atto audace consistette nell’affermare che “l’Europa non si farà con un colpo, né con la costruzione d’insieme: essa si farà per mezzo di relazioni concrete, creando innanzitutto una solidarietà di fatto”. È stata una genialità metodologica che ha reso possibile la pace in Europa negli ultimi 60 anni. Questo è il tipo di audacia che in questo momento serve all’euro.

La Germania non è il Paese sconfitto, ora ha nelle sue mani i destini del Vecchio Continente. Il suo benessere dipende dal fatto che nei prossimi giorni vengano prese azioni concrete per far vedere ai mercati una volontà chiara di unità politica, dicendo sì agli Eurobond, dando il permesso alla Bce di comprare il debito dei paesi periferici, lasciando scendere i tassi, mettendo in atto un piano di crescita. Bisogna dimenticarsi della Saar.

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