C’è un risvolto geniale nel modo con cui Papa Francesco ha “disegnato” questo Giubileo. Un risvolto improntato a quella istintiva genialità umana che ormai abbiamo imparato a conoscergli. È la decisione di moltiplicare le “porte sante”, di farne un fenomeno esponenziale e quasi pervasivo. Un’operazione di dilatazione e di decentramento iniziata settimana scorsa nella Repubblica Centrafricana, dove ha aperto la prima Porta del Giubileo nella cattedrale di Bangui, la capitale. Ieri è stata la volta di San Pietro, il 13 verranno aperte quelle delle chiese cattedrali di tutte le diocesi, tra cui San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma. Ed è solo un inizio, perché il 20 Francesco aprirà una Porta Santa all’Ostello della Caritas di via Marsala, a pochi passi dalla Stazione Termini. A Milano ci sarà una Porta Santa al Don Gnocchi e un’altra alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. E poi la stessa cosa vale per tutte le chiese dedicate alla Misericordia, come la commovente chiesa di vetro di Baranzate, voluta da papa Paolo VI.
Ma Francesco non ha voluto mettere limiti, e nel campo profughi di Erbil, dove sono raccolti migliaia di cristiani scappati dalle terre occupate dall’Isis, la Porta Santa sarà quella di una tenda, come ha chiesto l’arcivescovo caldeo, Bashar Matti Warda. E poi c’è la scelta più emblematica di tutte: far di ogni porta di cella una Porta Santa. Il Papa ha sempre avuto un’attenzione particolare — quasi una predilezione — per il popolo dei detenuti e ha voluto offrire loro questa condizione speciale. Che si attuerà «ogni volta che i detenuti passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre». Tutte le carceri hanno accolto questo “regalo”. Ieri a Rebibbia è stata aperta nella cappella del penitenziario. A Padova, al Due Palazzi, sarà il vescovo Claudio Cipolla a presiedere la cerimonia il 27 dicembre.
C’è un qualcosa di straordinariamente umano in questo desiderio di Francesco di non lasciare nessuno fuori dalla porta. O meglio di offrire a tutti la possibilità di varcare quella porta. Il mondo di Francesco è infatti un mondo a porte aperte. Nella stupenda catechesi del 18 novembre scorso se l’era presa con quel mondo che all’opposto vive nella cultura delle porte blindate: «ce ne sono tanti (luoghi, ndr) dove le porte blindate sono diventate normali. Non dobbiamo arrenderci all’idea di dover applicare questo sistema a tutta la nostra vita, alla vita della famiglia, della città, della società. E tanto meno alla vita della Chiesa. Sarebbe terribile». La porta aperta invece è la possibilità dell’ospitalità e dell’accoglienza. È opportunità di un incontro.
Ma da una porta non si entra soltanto, si esce anche. E l’uscire, se da una parte può essere vissuto da tutti come sintomo di libertà, dall’altra per la Chiesa è un’opportunità per andare incontro a tutti gli uomini, per non chiudersi nel proprio recinto.
Questa sorta di “etica della porta” di Papa Francesco non sarebbe ultimamente spiegabile se non ci si ricordasse di quella cosa che Gesù aveva detto di se stesso e che Bergoglio ha voluto ricordare in quella catechesi del 18 novembre: «Egli stesso l’ha affermato: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). Gesù è la porta che ci fa entrare e uscire».
Moltiplicare le porte quindi diventa aprire ad una speranza: «Noi dobbiamo passare per la porta e ascoltare la voce di Gesù: se sentiamo il suo tono di voce, siamo sicuri, siamo salvi». La misericordia è la voce di Gesù che ci aspetta dall’altra parte della porta. E allora vien naturale pensare che la cosa valga per ogni porta ci capiti di varcare nelle nostre giornate, che sia quella di casa, del lavoro, o della scuola. Ma anche quella del tram o della metropolitana di ogni mattina, in mezzo alla folla degli uomini.