L’avventura poetica – e prima ancora umana – di Clemente Rebora è singolarmente avvincente.
Giovane rampollo della borghesia milanese esprime tutto il proprio slancio ideale ed anche il suo scontrarsi con l’ottusità del circostante mondo imborghesito, parolaio, meschino, nella prima raccolta poetica, i Frammenti lirici del 1913. Poi la tragedia della guerra: la trincea, la decomposizione delle umanità e dei corpi, la paura e l’insensatezza; ferito, torna nelle retrovie e viene riformato per le conseguenze fisiche e psichiche che si trascina dietro.
Nel dopoguerra progetta di scrivere (forse anche per distaccarsi, oggettivandola, dall’angoscia che il ricordo continua a provocare) un libro di poesie e prose sulla guerra; non riesce e si limita a pubblicare, nel 1922, la piccola raccolta dei Canti anonimi. Nel frattempo si butta nella professione di insegnante e nell’attività di conferenziere (apprezzatissimo, soprattutto dal pubblico femminile) che proclama alti ideali educativi e spirituali legati alla tradizione mazziniana. Lentamente, però, si avvicina alla fede cattolica (era stato battezzato solo per convenienza sociale e cresciuto senza alcuna educazione religiosa) sia per personale riflessione sia per amicizie incontrate. A 45 anni riceve la cresima e dopo qualche mese decide che sarebbe diventato sacerdote rosminiano.
In questo passaggio si situa lo snodo centrale, il più difficile da cogliere nella sua interezza. La conversione è un cambiamento radicale e Rebora lo sottolinea col celebre episodio — che lui stesso racconterà — del disfarsi di tutti gli scritti che aveva nel piccolo appartamento di via Tadino per darli ad uno straccivendolo: taglio netto col passato e, apparentemente, negazione di esso. Da quel momento, infatti, pensa che non scriverà più poesia e si dedica umilmente alle incombenze che i suoi superiori gli assegnano nella Congregazione. Eppure, proprio al termine dell’esistenza, quando don Clemente sarà gravemente segnato dalla malattia, sbocceranno nuovi fiori poetici: alcuni occasionali e insignificanti, altri invece di grande bellezza come il Curriculum vitae e molti dei Canti dell’infermità.
Quando Rebora, nelle settimane in cui cominciava il noviziato (1930), riconosceva: «Maestro divino, prima di studiar la scienza divina, mi poni una condizione: riconoscermi analfabeta, maturo meno di un sempliciotto», non pensava — come scrive la curatrice del nuovo Meridiano Mondadori con tutte le sue opere, appena pubblicato – ad un «azzeramento totale del passato»; tantomeno si può parlare — come fa Walter Siti su Repubblica — di «voglia di cancellarsi, odio dell’Io se contrapposto a Cristo». Non è questa l’autentica conversione cristiana.
Lo dice chiaramente Rebora stesso in un lettera al fratello proprio parlando del suo ingresso definitivo in convento: «Questo mio entrare nell’Istituto della Carità […] non significa già scioglimento del mio mondo anteriore, ma trasfigurazione di esso in vista della patria celeste a cui tutti, chiamati, comunque siamo sospinti: e non è quindi neppure troncamento, ma anzi sublimazione di tutti gli affetti». Ecco: non negazione, ma trasfigurazione di tutto; anche del dono poetico.