«Dire “ti voglio bene” e fare un passo indietro»: così sentii una volta don Giussani definire l’atteggiamento verginale. Penso che nell’educazione dei giovani parlare di verginità non sia affatto qualcosa di superato o di troppo spirituale. Anzi, essa è quasi il filo rosso dell’educazione cristiana, perché racchiude in sé tanti aspetti. Educando un giovane non si inizia mai parlando di verginità, ma alla fine si arriva sempre lì. Una volta, quando ero a Vienna come cappellano in una parrocchia, mi capitò di avere conversazioni profonde con un ragazzo, studente Erasmus. Affrontando insieme nodi significativi della sua esistenza, a un certo punto mi disse: «Adesso capisco che cosa è la verginità! È come stare a Vienna, solo che dura per tutta la vita». Quella frase, detta forse un po’ d’emblée, mi accompagna tuttora.
La verginità è infatti una continua possibilità di aiuto reciproco, di custodia vicendevole (come ama dire il nostro nuovo papa Francesco) ove tutto diventa occasione per ricordarsi del Mistero presente. Educarsi alla verginità vuol dire anche entrare nella percezione che la vita è dono, che tutto è dono, che tutto è per noi. Ricordo una passeggiata in costiera amalfitana con un seminarista, a ridosso della sua ordinazione diaconale: Positano, Conca dei Marini, Sorrento e poi, un po’ più in là, Capri e Ischia… Paesaggi mozzafiato. Ci sembrava quasi che le nostre parole potessero guastare il panorama. «Vedi – gli dissi – questo è il regalo che il Signore ti fa per la tua ordinazione!». Allo stesso modo, quando preparo le coppie al matrimonio, mi trovo spesso a dire: «Quando stringi la tua morosa tra le braccia, senti come una voce che ti dice: chi me l’ha data? Da dove viene? E dove mi condurrà?
La donna che amo viene da lontano e mi porta lontano». Senza questa prospettiva, tutto rischia di finire in fretta. Vivere la verginità significa entrare nella prospettiva che è un Altro che salva. Guardando una persona cui voglio bene e facendo memoria dell’amore che Cristo ha portato nel mondo, capisco che non sono la sua salvezza e che, se pretendessi di esserlo, sarebbe l’abbrivio di ogni violenza. Ma se io non posso salvare l’altro, neanche l’altro mi può salvare. Per questo spesso dico ai giovani, un po’ scherzosamente: «Non chiediamo alla morosa quello che in realtà solo Gesù ci può dare».
Guardando la realtà, persone e cose, «così come le guarda Cristo» (un’altra espressione di Giussani), tutto diventa richiamo e introduzione ad un dietro-mondo, più vero, che è l’unica realtà che non passa. Benedetto XVI disse una volta che il celibato è una finestra spalancata sull’aldilà. E san Paolo esprime la stessa cosa quando dice che il tempo si è fatto breve: affrettiamoci, non c’è tempo da perdere! Tutto quello che abbiamo e siamo deve essere utilizzato per la conoscenza di Cristo, al cui confronto tutto è spazzatura. La verginità permette che l’amore, nel tempo, diventi più vero.
Lo capisco ora quando vedo mia mamma accudire, con tanta tenerezza, mio papà non più giovanissimo. Ma ci insegna anche a usare buone dosi di ironia e di realismo: dobbiamo conoscerci, educare la nostra umanità e la nostra corporeità; e riconoscere anche i nostri limiti, perché la natura punisce gli spavaldi. San Tommaso diceva che l’affettività è l’energia più intensa che naturalmente l’uomo possiede. Se non è ben convogliata e indirizzata, si fanno disastri. Come diceva un mio conterraneo, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: «La paglia vicino al fuoco… s’abbrucia».