La vittoria di Trump ci ha sorpresi. Sarebbe inutile cercare una risposta facile a quel che è successo. Probabilmente il vicepresidente Pence e il partito repubblicano nel suo insieme orienteranno le promesse impossibili di Trump verso politiche realizzabili. Il tempo dirà se vinceranno le istituzioni o l’uomo che le ha sfidate. È difficile trovare precedenti nella storia americana di manifestazioni come quelle degli ultimi giorni contro la legittimità del Presidente eletto. Le urne si sono appena chiuse e stiamo parlando del Presidente, una figura quasi sacra. È ugualmente difficile trovare precedenti di un Presidente eletto che critichi i manifestanti e i media. Stiamo parlando di due libertà fondamentali: quella di manifestare e di stampa.
Ad alcuni è piaciuta l’idea di costruire un muro per isolarsi dai messicani, altri vorrebbero un altro muro: quello che li separi dagli elettori di Trump. Cos’ha portato una parte importante della società statunitense a sognare muri dietro cui sentirsi sicuri? Quale cambiamento, quale paura, quale insicurezza provoca una reazione del genere? C’è una prima risposta più o meno evidente. Il malessere contro l’establishment di Washington non è provocato solamente dalla sua arroganza, dalla sua lontananza dalla gente che soffre, dalla sua opulenza. Si tratta del malessere dinanzi a uno Stato impotente, davanti alla fine della sovranità degli stati nazionali così come li si conosceva finora.
È difficile da accettare, ma nello studio ovale non ci sono più bottoni da spingere. Il Presidente non ha un pulsante per far tornare prospera la classe media, per mantenere a galla l’industria. Resta solamente il pulsante nucleare. Gli altri sono in una zona imprecisa sopra gli Stati che non è di nessuno, ma che è di tutti. La situazione di instabilità è difficile da gestire. Forse per questo è più facile tornare indietro rispetto al dire di aver recuperato quei pulsanti.
Il malessere dinanzi all’impotenza dello Stato genera a sua volta un allontanamento dall’altro, una rottura del patto costituzionale (io-sono-con-te) e della percezione del noi (chi siamo anche se la pensiamo diversamente) propri di una democrazia. Jefferson sosteneva la necessità di una nuova Costituzione per ogni generazione. Forse è una proposta eccessiva, ma indica un postulato chiaro: nella vita sociale non si può solamente ereditare, come nelle scienze naturali, le evidenze e le certezze conquistate dalla generazione precedente. L’ideale dei padri fondatori, prima di arrivare sulle coste del Massachusetts e dopo, quando è stato forgiato l’illuminismo americano, ha sempre avuto un forte spirito comunitario.
La democrazia degli Stati Uniti non si è inizialmente conformata con la regola della maggioranza. Il Federalista – che si può leggere come la cronaca della stesura della Costituzione del 1787 e della nascita della nazione – è segnato dall’aspirazione di conseguire una certa unanimità nell’approvazione della Carta Magna. Questa regia istituzionale implica una stima dell’altro, la stessa che ora sembra essersi perduta. Non si può costruire una nazione lasciando gli altri dietro a un muro, gridano dalle loro tombe i padri della patria.
Hannah Arendt spiegava che i padri fondatori avevano paura del dominio della maggioranza, non volevano una democrazia allo stato puro. Negli Stati Uniti non c’è una democrazia, diceva, ma un regime repubblicano, e i padri fondatori erano molto interessati a garantire i diritti delle minoranze, perché pensavano che in un corpo politico sano dovesse esistere una pluralità di opinioni. Pluralità di opinioni e di soggetti, tutti imprescindibili.
Un corpo politico sano non può vivere senza l’altro (sia un elettore di Trump o di Hillary). Questa esperienza dei padri fondatori – anche l’Europa ha avuto i suoi – è quella che ora sembra necessario riconquistare. Su entrambe le sponde dell’Atlantico.