Il 1° ottobre, giorno del referendum in Catalogna non consentito dalla Corte Costituzionale, è già diventato un giorno molto triste per la storia recente della Spagna. È stato un giorno in cui le autorità hanno violato la legge, un giorno di violenza, un giorno in cui la dialettica amico-nemico ha raggiunto livelli che raramente si erano visti dal ritorno della democrazia nel Paese. La frattura sociale, già molto profonda, si è aggravata.
Anche se in questi momenti regna la confusione, almeno alcuni punti sembrano fermi. Un governo autonomo legittimamente costituito è andato oltre quello che era giuridicamente e politicamente ragionevole nel suo piano per far svolgere una consultazione vietata. Per non rispettare le decisioni dei giudici, che avevano ordinato di sequestrare il materiale elettorale e chiudere i seggi, ci sono stati atti di resistenza all’autorità appoggiati dallo stesso governo e si è tenuta una consultazione senza garanzia alcuna e che non può essere seriamente definita referendum. La polizia catalana ha disobbedito ai giudici. E le forze dell’ordine nazionali hanno agito al suo posto, in condizioni che non potevano né attuare quanto stabilito dai tribunali – la chiusura di tutti i seggi -, né evitare l’uso della forza, il quale per molti ha rappresentato una perdita di legittimità dello Stato.
Ci sarà chi si sentirà orgoglioso per quel che è successo. Ma al di là dell’appartenenza ideologica, si può essere concordi sul fatto che l’esperienza che stiamo vivendo è negativa o almeno traumatica e indesiderabile. Non sappiamo cosa potrà accadere nelle prossime ore. Lanciamo una provocazione, almeno per avere una boccata di ossigeno in un ambiente che sembra per tutti asfissiante. E se tutta questa grave crisi che si sta vivendo in Catalogna e nel resto della Spagna fosse un’opportunità?
Quello che è accaduto sembra un invito a essere un po’ meno pretenziosi. Perché il risultato, da qualunque parte lo si guardi, è disastroso. Tutti noi, che credevano di sapere cos’è la democrazia – la maggior parte di noi è nata con essa, ce l’abbiamo nel Dna -, improvvisamente ci siamo accorti della nostra povertà civica. Credevamo che la democrazia consistesse nel fatto che lo Stato ci garantisse la condizione di cittadini liberi e uguali e che questo fosse sufficiente. Abbiamo pensato che fosse sufficiente avere un buon progetto per il domani, un buon credo, un buono sogno o un buon progetto ideologico con cui plasmare la realtà per costruire un Paese più umano, che ci desse un po’ di felicità e, diciamolo onestamente, ci siamo ritrovati con una terra devastata tra le mani.
Questi giorni forse sono serviti a farci comprendere quanto sia sbagliato identificare la vita con le urgenze di un certo modo di fare politica. O per capire che la democrazia basata solo sull’affermazione della legge e sulla protezione dei diritti – anche quelli di sovranità – alza grandi barriere nei confronti degli altri. E – questo richiede un po’ più di acume – per capire che le certezze civiche che pensavamo essere molto solide, in realtà sono spesso stentate, perché non sono allenate, non sono discusse, non sono verificate.
In mezzo a tanto rumore e a tanta esaltazione ideologica – di cui siamo stati complici – abbiamo intuito che la democrazia non può essere smettere di parlare con il vicino o il collega di lavoro, esibire bandiere come chi scava fossati. Forse abbiamo persino intravisto che la più grande tentazione per un democratico è mantenere come unico criterio il trionfo del suo modo di concepire il mondo e il Paese.
E queste intuizioni sul fatto che qualcosa non va bene sono sicuramente un’opportunità. Perché ci avvicinano, anche se di poco, alla vera essenza della democrazia. Non c’è democrazia reale se non c’è una convivenza in cui si possano affermare le persone. E ci sarà chi ascoltando discorsi simili storcerà il naso e troverà il modo di manifestare tutto il proprio scetticismo. Ma dopo queste e altre esperienze sappiamo bene quali sono le conseguenze di una democrazia formale e di una tolleranza ridotta all’indifferenza violenta. I leader sociali e politici esiliati durante la Repubblica e quelli che rimasero in Spagna con Franco erano consapevoli dei propri errori e cercavano questa affermazione dell’altro come base della transizione e della Costituzione del ’78. Non si può costruire la convivenza solo con verità storiche o giuridiche scolpite nella pietra. Non esiste un settore in cui è così evidente che la verità è rapporto e che passa attraverso la libertà come in quello politico e sociale.
La sfida del disaccordo è così chiara che può essere un’opportunità per potenziare e valorizzare i punti di incontro già esistenti e svilupparne di nuovi. Ci attendono giorni incerti. Ed è meglio che che il conflitto venga risolto nell’ambito della Costituzione. Ed è particolarmente conveniente che ci troviamo non nei rumorosi e frustranti dibattiti ideologici, né in progetti fuori dalla realtà, ma in quel momento in cui l’aratro entra nella terra e la trasforma, obbedendo al concretissimo desiderio di raggiungere una vita più umana.