Tradizionalmente nella vicenda politica italiana si parla di “questione meridionale”; e con buoni motivi ad essa si è aggiunta da qualche decennio una “questione settentrionale”. Resta invece ancora da porre la ben più decisiva “questione romana” nel senso attuale del termine, che in realtà è in larga misura la chiave della soluzione delle altre due. Mi riferisco al coacervo di burocrazie parassitarie statali e para-statali che è cresciuto a Roma a ritmo sempre più sostenuto senza soluzione di continuità dal fascismo fino ad oggi: un… inceneritore di risorse che lavora a ritmi ormai insostenibili per l’economia del Paese e che costituisce il principale ostacolo a tutte le riforme urgenti di cui l’Italia ha bisogno per sopravvivere alla crisi internazionale in atto e poi comunque per non soccombere alle sfide della globalizzazione.
Beninteso, una pubblica amministrazione centrale è necessaria; il negarlo sarebbe una pura perdita di tempo. La questione è un’altra: nel caso italiano la quota di amministrazione centrale necessaria, e perciò utile e produttiva, costituisce ormai una modesta percentuale dell’insieme. Tutto il resto, ovvero la maggior parte, è amministrazione centrale superflua, inutile e perciò dannosa. Il confronto con le città che hanno nell’economia un ruolo direzionale analogo a quello che Roma ha nella politica e nella pubblica amministrazione ormai è fisico, palpabile ed evidente a chiunque. A Torino, a Milano e anche in tante altre grandi e piccole città con analoga vocazione cinquant’anni fa c’erano fabbriche che occupavano interi quartieri, e palazzi per uffici che occupavano interi isolati. Oggi tutto questo è letteralmente scomparso: non ci sono più le migliaia di posti di lavoro allora concentrati in singole aziende, e non ci sono più nemmeno gli stabili che ne erano sede. Sono stati sostituiti da altri edifici, da altre attività e da altri modi di lavorare. Quando invece si va a Roma sembra di entrare per magia negli anni 60; se non in certi ministeri negli anni 30, come ad esempio al ministero degli Esteri dove tutto l’ambiente e l’arredo sono rimasti a tal punto quelli che erano allora che non ci si sorprenderebbe di veder sbucare fuori da qualche angolo il ministro Ciano o Benito Mussolini.
Nell’arco di cinquant’anni molte aziende che nel Nord davano nome a quartieri interi o che coincidevano con piccole città sono scomparse, e quelle che hanno saputo continuare sono oggi organizzate in modi radicalmente diversi da come erano mezzo secolo fa. Nella Roma statale e para-statale invece tutto continua come se il tempo non passasse. Lungi da puntare al riorientamento della propria economia a fini produttivi, la metropoli laziale continua imperterrita a giocare la carta del consumo della rendita politica. Un sintomo impressionante di questo arroccamento senza prospettive fu nell’ottobre 2010 la sua trasformazione da città in “ente territoriale speciale” chiamato Roma Capitale: una novità irritante per quell’ampia parte del Paese che non l’apprezza in tale ruolo, ma soprattutto una capitolazione che lascia senza fiato. La città che in forza di una tradizione multimillenaria affermava con fierezza di essere l’Urbe, la città per eccellenza, adesso è un “ente territoriale speciale” a caccia permanente di stanziamenti altrettanti speciali da parte dello Stato italiano.
Fra le varie circostanze perverse che impediscono l’urgente riforma dell’amministrazione centrale dello Stato c’è il peso elettorale di Roma, il cui territorio è così esteso che se Milano avesse la medesima dimensione non solo comprenderebbe tutta quanta la provincia omonima ma ingloberebbe anche parti consistenti delle province di Varese, Como, Monza e Brianza, Bergamo, Lodi e Pavia. Stando così le cose, nessun partito nazionale ha mai osato porre una questione che nell’immediato ne avrebbe messo in pericolo le sorti nella grande città laziale. Sembrava di poter sperare che il nostro odierno famoso governo tecnico, formato da grandi esperti legittimati dall’alto, potesse quantomeno aprire la questione. Invece niente: questi cattedratici di grandi università del Nord, graditi alla grande industria, di casa a New York e a Francoforte ben più che a Roma, si sono buttati in braccio alla burocrazia parassitaria romana ancora di più di quelli di prima. I timidissimi e traballanti progetti di revisione delle spese ministeriali, che sembrano fatti apposta per cadere in tutte le trappole che ad essi verranno tese, ne sono purtroppo una conferma.
A questo punto non si sa più in chi sperare, ma il problema resta e diventa ogni giorno più grave. Occorre procedere al più presto a una ristrutturazione dell’amministrazione centrale dello Stato non meno radicale di quella che la grande industria per parte sua ha già fatto da decenni, la quale sia ragionevolmente accompagnata da un parallelo processo di riorientamento dell’economia di Roma verso attività produttive. Non stiamo parlando di Camberra o di Brasilia, che non hanno altra prospettiva se non quella di essere sede di uffici statali. Stiamo parlando di una città dal valore simbolico planetario, con un vastissimo patrimonio monumentale unico al mondo, centro di produzione di servizi culturali di enormi potenzialità, massima meta mondiale di pellegrinaggi (tanto per fare un esempio, piazza San Pietro in Roma riceve ogni anno una quantità di pellegrini che supera di parecchie volte il numero dei pellegrini che contemporaneamente vanno alla Mecca; ed è soltanto una delle tante mete interessanti e importanti per chi viene in visita nella città). Penso che tutta l’Italia accetterebbe di buon grado che con fondi pubblici venisse finanziato quel processo di riorientamento dell’economia di Roma di cui si diceva, purché fosse davvero efficace e venisse davvero accompagnato da una drastica razionalizzazione della macchina centrale dello Stato.