Se il sindacato contrattacca la “riforma Di Maio”

I sindacati non hanno torto nel vedere un rischio democratico nella progetto rottamatorio di M5S, ma tocca a loro dimostrare la propria credibilità di "corpo intermedio". GIANNI CREDIT

Luigi di Maio, ha scelto il terreno del lavoro per scoprire la sua prima carta elettorale di candidato M5S. Se diventerà premier, ha detto, ha in programma di “riformare radicalmente” i sindacati dei lavoratori. Li accusa di essere divenuti burocrazie autoreferenziali, di detenere ormai abusivamente un monopolio delle relazioni industriali: inefficiente soprattutto per i giovani, disoccupati o precari. Per questo Di Maio ha prospettato anche “interventi choc” sul costo del lavoro: qualcosa di simile a una rottamazione al ribasso del sistema dei contratti di lavoro, giudicati alla stregua di gabbie che tutelerebbero i lavoratori garantiti (sempre meno) e continuerebbero ad escludere le fila in aumento dei giovani senza contratto e soprattutto senza lavoro. Più nel vago, il leader M5S ha lasciato il futuro della rappresentanza: se ai vecchi sindacati, nella sua visione, se ne debbano sostituire di nuovi; oppure se M5S si presenti tout court come partito-sindacato, senza neppure più cinghie di tramissione come quelle che collegavano la Cgil al Pci.

Proprio il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ha immediatamente replicato a Di Maio: un programma elettorale che includa l’eliminazione dei sindacati è “autoritario”, in contrasto frontale con la civiltà democratica. L”argomento è di principio, in sé non eccepibile. I sindacati sono espressamente citati dalla Costituzione come “corpi intermedi” della Repubblica in due articoli (39 e 40) assieme alle forze della “libera iniziativa economica”, gli imprenditori e le loro organizzazioni (articolo 41). E proprio le organizzazioni dei lavoratori sono, nella Carta, un paradigma forte di corpo intermedio: di attore di primo livello di una democrazia economica, sempre meno dominata e diretta dallo Stato, ma mai lasciata in totale balìa del mercato.

Nel merito, tuttavia, il confronto attende di essere approfondito, e molto. Se l’analisi di Di Maio appare elementare, i sindacati non possono pensare di trincerarsi dietro difese formali. Per M5S è comunque evidente che la responsabilità dei sindacati è alta tanto quanto la disoccupazione giovamile. Sembra quindi sufficiente rimuovere il loro (supposto) effetto-barriera sul mercato del lavoro, per far rifluire posti di lavoro e redditi verso “i giovani disoccupati”.

Gli argomenti per criticare questo approccio sono i più svariati. Il problema dei giovani Neet si risolve forse togliendo contratti e reddito ai loro coetanei ingegneri che molte aziende stanno assumendo per sviluppare Industria 4.0? Quando l’Europa colpisce una nota compagnia aerea low-cost per violazioni di diritti minimi dei lavoratori, alla base c’è “troppo sindacato” o troppo poco? Per l’Italia la sfida corrente è la ri-crescita del Pil in un’economia globalizzata e competitiva o la redistribuzione astratta di un Pil falcidiato in un’immaginaria economia chiusa? E dallo sviluppo del Jobs Act, alla riforma della Pa fino all’apertura di percorsi di uscita anticipata compatibili con le pensioni Fornero sono ancora molti e cruciali i fronti politico-economici sui quali un sindacato dinamico e responsabile può essere utile o addirittura decisivo, mentre la terra bruciata sindacale non produrrebbe nulla o peggio.

Questo appare d’altronde il punto su cui il sindacato farebbe male a non cogliere l’opportunità offerta dall’offensiva elettorale dei 5 Stelle. Al pari delle banche italiane per la stabilità dei circuiti risparmio-credito, il sindacato non può permettersi di addebitare la crisi dell’occupazione e la propria impasse rappresentativa a una recessione pur generata in parte rilevante da fattori esterni. Come per le banche, la pressione delle turbolenze globali ha attaccato un sindacato già in crisi d’identità, credibilità, capacità d’intervento.

Ancora pochi mesi va, ad esempio, la riforma dei voucher è apparsa simbolica. La Cgil, in particolare, ha scelto uno strumento novecentesco come un referendum di stretta mobilitazione politica attaccando un vasto quadro di riforma su un aspetto secondario come i buoni-lavoro: non irrilevante peraltro nel flessibilizzare l’offerta di lavoro. Il risultato è noto: i “nuovi voucher” – rimodellati dal governo con una pistola politica puntata da un sindacato autoreferenziale – non sono praticamente utilizzati.

Naturalmente sono altri i tavoli a cui un sindacato che voglia tenere a bada Di Maio deve accettare di sedersi, anzi: dovrebbe sedersi per primo, trainando il confronto riformista. Il sindacato preferisce la “riforma M5S” o un’attuazione – un’auto-attuazione in democrazia adulta – del dettato costituzionale sui criteri di rappresentatività delle diverse organizzazioni? Preferisce far muro a oltranza sulla su un’architettura contrattuale tradizionale e pesante o accetta la sfida di una contrattazione più snella, flessibile, capace di “aggiungere valore” all’interno delle aziende che lo devono produrre per tutti?

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