Sono stati recentemente pubblicati, sotto il titolo L’uomo nuovo, tre racconti inediti di Solženicyn. In essi il grande scrittore russo mostra, con una scrittura secca e nello stesso tempo dolente, come la macchina della menzogna che ha generato il mostro staliniano ha potuto prendere il via e stabilizzarsi per il convergere di mille scintille apparentemente minute e insignificanti. È il giovane studente universitario, tutto sommato sincero e desideroso di un grande futuro, che si ritrova, cedimento dopo cedimento, ad essere l’aguzzino del professore che pur gli aveva consentito di continuare negli studi; è la ragazza di forte educazione cristiana che strappa l’icona di carta datale dal nonno per poter essere ammessa nell’organizzazione giovanile del partito e che, proprio da quel gesto fatto di nascosto e senza apparenti implicazioni gravi, inizia la sua discesa nei gironi dell’abbrutimento. Solženicyn vuol così ricordare che un sistema perverso non sta in piedi esclusivamente per la forza del suo apparato propagandistico o poliziesco: occorre che in qualche modo ogni singola persona accetti da fare la sua parte nell’ingranaggio; fosse anche solo la parte di chi fa finta di non vedere l’ingiustizia, di chi si rassegna alla menzogna, di chi si trincera dietro al «così fan tutti».
È la grande lezione de Il potere dei senza potere di Havel, anch’esso recentemente ripubblicato. Ciò che impressiona di questo testo è la sua straordinaria pertinenza al momento storico che stiamo attraversando, cioè la famosa «crisi». Si potrebbe discutere a lungo sul fatto se noi viviamo o meno in un regime – almeno culturalmente parlando – «post-totalitario» (cioè totalitario in modo differente dalle tradizionali dittature), come Havel definisce la Cecoslovacchia filosovietica in cui scriveva il suo saggio. Quel che è certo è che ci sono delle dinamiche di pensiero e di reazione a quello che ci capita intorno che sembrano seguire tutte lo stesso copione.
Un semplice episodio che ho sentito raccontare qualche sera fa durante un incontro tra amici può aiutare a farmi capire. Un giovane neo laureato in ingegneria, fresco di matrimonio, si trova a lavorare in un’azienda che, come tutte, sente pesantemente i morsi della crisi.
La reazione unanime dei colleghi, ed anche la sua almeno all’inizio, è quella di individuare – di fronte ad ogni proposta, davanti ad ogni scelta, nel dialogo lavorativo quotidiano – chi ha ragione e, di conseguenza, chi ha torto. Sembrerebbe ovvio, ma il nostro giovane ingegnere si accorge immediatamente che il risultato è una depressione del clima in azienda, un sospetto crescente, una mancanza di inventiva, un logoramento dei rapporti. E, con la semplicità del famoso verduraio di Havel, prova a dire ai colleghi: «Se invece di accanirci a individuare e distribuire ragioni e torti cercassimo di aiutarci a vivere meglio le otto e più ore che passiamo insieme? Se tentassimo di collaborare?». Sorpresa generale. Sembra niente eppure in molti capiscono che accettare questa nuova prospettiva potrebbe essere l’unico modo per uscire dalle secche del lamento e dell’insoddisfazione sterile.
La domanda del giovane ingegnere è una decisione analoga a quella del verduraio di Havel di non esporre più il cartello di propaganda, di non accettare la «vita nella menzogna». E, come quella, non sa in anticipo a quali risultati potrà portare. Quel che è certo è che si tratta di una di quelle decisioni che immettono nel meccanismo della crisi il granellino di sabbia che può incepparlo; è il «potere dei senza potere».