Nell’Italia stanca e invecchiata c’è un giovane sveglio e desiderante (vedi Censis e Cdo), che ha voglia di fare. Ha avuto una web-idea “imprenditoriale” e vorrebbe realizzarla. Ha convinto un paio di ragazzi. Lavorano alacremente per elaborare un modello. Lui intanto si è messo a cercare: aiuti, suggerimenti, soldi. Vuole, deve partire velocemente.
Nel web-mondo tutto accade in fretta. È la fase dello “start up”. Ha girato e cercato informazioni presso banche, enti pubblici, fondi, consulenti, esperti, associazioni, ministeri, conoscenti. È in ballo da qualche mese. Non è un imprenditore, è sicuramente naif, ma ci vuole provare. Pone quattro semplici questioni:
1) quando è opportuno costituire una società? Come distribuire le quote? Che clausole inserire nello statuto per proteggere le proprie quote?
2) come risparmiare sui costi notarili? Come risparmiare sui costi di contabilità? Come posso recuperare l’Iva anticipata se non è sicuro che la mia azienda produrrà ricavi nella prima parte?
3) Come faccio a proteggere la mia idea? Come faccio a pagare un buon legale nella prima parte della vita dell’azienda?
4) Ci sono finanziamenti agevolati e/o a fondo perduto? Come posso accedervi?
Domande semplici, ma le risposte non lo sono affatto. Complicazioni, opacità, contraddizioni, rimandi ad altro, o anche nessuna risposta. Ecco come finisce la retorica dell’innovazione e della spinta all’imprenditoria giovanile, i temi che occupano giornate di convegni e documenti ministeriali (c’è addirittura un dicastero per i giovani), analisi di Confindustria e pagine di giornali.
Il giovane italiano scrive: “Nel nostro sistema costituire una start up è un procedimento costoso, burocratico e rigido. I nuovi business sono caratterizzati da mercati a crescita esponenziale, un rischio d’impresa elevato, costi fissi molto bassi, e in alcuni casi investimenti iniziali di bassa entità, ma i giovani che vogliono buttarsi nella mischia con una idea competitiva sono costretti a occupare una grossa fetta di tempo nella gestione burocratica, senza menzionare le ingenti spese amministrative, come tasse, atti notarili e contabili. Se un ente pubblico o semipubblico o associazione o privato offrisse questi servizi gratuitamente, magari chiedendo in cambio opzioni sulle quote o sulle azioni delle start-up, diventerebbe attore fondamentale dell’innovazione in Italia, data la scarsa attività di incubatori e fondi di seed capital. Gli start-upper non hanno bisogno di consulenze sul prodotto o sul business plan, né, nel caso del mondo web, di una sede o di tavoli. Hanno invece bisogno di avere la strada libera dalla burocrazia e dalle carte, hanno bisogno di interlocutori di cui fidarsi. Un esempio? L’incubatore Y-Combinator di San Francisco attivo dal 2005 ha finanziato 300 start up creando un valore totale delle aziende di 4.7 miliardi di dollari e con un valore del portafoglio investimenti di circa 500 milioni, a fronte di un investimento iniziale di 5 milioni. È evidente che questi numeri non sono replicabili da noi, ci vorrebbero trasparenza e velocità all’americana, eppure ci sono immense opportunità che non vengono sfruttate e molte start up italiane sono costrette ad emigrare all’estero”.
Ci sono tanti giovani italiani che hanno lo stesso impulso a creare, a rischiare. Qualcuno è in grado di rispondere sul serio alle loro domande o è meglio che prendano l’aereo per San Francisco?