Lo aspettavano dalla notte dei tempi: avevano facce rese smunte dal troppo attendere, gole riarse per le profezie scagliate ma rimaste in sospeso, piedi sudici e fangosi per il troppo girovagare. Mani coi calli, capelli imbiancati, udito sfiancato per troppi indizi lattiginosi: “Di qua, di là, eccolo qui, eccolo là. E’ vestito da re: viaggia in prima classe”. In tanti l’avevano previsto, pure immaginato; qualcuno, poi, s’ostinava a dirsi d’averlo addirittura incrociato lungo la strada. Tra tutti, uno s’era spinto fin dove nessuno aveva ancora osato, quasi sul ciglio dell’insensatezza: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele“. Dal piccolo germoglierà il Gigante: quando mai? “Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Mic 5,1). Certe aspettative rimarranno insulti al buon senso. Quando decise d’apparire, nel mondo era buio pesto: far brillare le tenebre, da Betlemme in poi rimarrà il suo marchio di fabbrica indelebile. Sempre di notte, nell’ora più dura: l’ora delle madri sul davanzale, dei ritardi che dimenano il cuore, delle imboscate. L’orario del cielo: punto e a capo.
Aspettato così a lungo d’essere rinominato “L’Atteso”, quando si congiunse al mondo l’accolsero da sfrattato: “Per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,17). Un giorno accenderà fuochi ovunque passerà: sulla battigia del lago, sulla cima della collina, a Betania e a Gerusalemme, nel pretorio e sulla gobba del Golgota. Nel giardino d’Arimatea. Tra il lago e la Croce, troverà posto per ciascuno, una collocazione per ognuno: che nessuna casa rimanga senza la festa del cuore. Al Dio costruttore-di-posti, però, il mondo non fece trovare posto. Lungo la strada di Betlemme — popolata di gabellieri, di truffatori e di inservienti, pure di santi — tutti erano in attesa di Lui: nessuno, quando passò loro accanto, s’accorse che l’attesa era finita, s’era compiuta.
Aveva addirittura preso forma d’uomo: c’era Dio che passava lì davanti, nascosto nel grembo di una Donna, a dorso di un ciuco strattonato da un carpentiere. Ciò che per gli antenati era diventato delirio dei sensi — il vedere Dio faccia a faccia —, ciò che per i nascituri permarrà come nostalgia straziante — il non esserci stati quella notte — per chi c’era, e non s’accorse, rimase un’imboscata a tutto campo, un tocco d’arte: mica facile essere il più atteso e sorprendere come il più sconosciuto. Sono cose-della-Madonna, roba-da-Dio. In realtà Gli bastò appena un’unghia di fantasia e una goccia di avvedutezza: in un mondo di uomini che sognavano di diventare Dio, scelse di fare l’esatto contrario, Lui che era Dio: scelse di farsi uomo. Un Dio bastian-contrario: l’Emmanuele.
Atteso come mai nessuno prima di Lui, quando giunse dissero ch’era in più: l’umano è un perpetuo capottarsi dalle risate. Il Dio-bambino: un sovrappiù, un sovrapprezzo, un sovraffollamento. L’impressione di non servire ad altro che a far stare stretti coloro che un posto già ce l’hanno: quasi un fastidio. A nessuno, però, riuscirà d’arrestarne la marcia. Colui per il quale non c’è mai posto, un posto lo troverà sempre: nelle catapecchie, per duplicare un piatto di minestra basta un bicchiere d’acqua: buona cena anche a te.
Quando s’accorsero ch’era Lui per davvero — mica s’immaginavano un Dio simile — lo stupore divenne rimpianto: è lancinante scoprire che l’Atteso è transitato sotto gli occhi e non l’abbiamo riconosciuto. Nato a Betlemme, casa-del-pane, un giorno diverrà Pane: “prendete e mangiate. Fate festa”. Anche allora sarà scandalo, tradimento. Neanche là s’arresterà: sotto gli occhi dei gufi indispettiti, risorgerà. Tutto daccapo, tutto come un tempo: “Appari a me, Signore, perché tutto è molto faticoso quando si perde il gusto di Dio” (A. de Saint-Exupéry).
Il gusto di Dio, il sapore dell’uomo: l’intonazione del Natale.