C’è chi è certo che la Spagna, e forse l’Italia, si trovino di fronte all’ultima possibilità di salvare le rispettive economie. Il duro pacchetto di misure approvato venerdì scorso dal governo di Mariano Rajoy risponde al memorandum per il salvataggio delle banche, meglio noto come Mou (Memorandum of Urdestandiing on Financial-Sector Policy Conditionality), e alle condizioni fissate dall’Ecofin per posticipare l’obiettivo della riduzione del deficit al 3% del Pil.
Ci piacerebbe un’altra Europa. Ci piacerebbe una Merkel più comprensiva, una Banca centrale disposta a immettere liquidità, ad abbassare drasticamente i tassi di interesse e a comprare debiti senza limite. Un’Unione che non metta in discussione ciò che è stato concordato al Consiglio europeo dello scorso giugno, che ci permetta di guadagnare tempo visto che non si può “inspirare ed espirare” contemporaneamente. Un euro con un governo economico capace di fare fronte alla speculazione dei mercati. Tutto ciò permetterebbe di correggere senza fretta i profondi disordini del sistema finanziario causati dalla bolla immobiliare e tutti i grandi squilibri dell’economia spagnola (mancanza di produttività, disfunzioni di un modello di welfare insostenibile e altri ancora).
Ma questa Europa non esiste e la Spagna, come l’Italia, ha bisogno dell’Europa che c’è. Per ricevere il denaro necessario (fino a 100 miliardi di euro in quattro rate secondo quanto rivelato da Der Spiegel) a sanare il sistema bancario e per continuare a chiedere un sostegno che permetta di abbassare l’insostenibile tasso del 7% al quale stiamo rifinanziando il nostro debito. Sebbene Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, abbia parlato lo scorso fine settimana di salvataggio completo a proposito delle economie di Spagna e Italia, questo non si farà: non ci sono risorse sufficienti. Quindi non c’è altra soluzione se non continuare a combattere questa battaglia lunga ed estenuante contro i mercati con una mano legata dietro la schiena, dato che manca un euro solido.
Rajoy ha certamente sbagliato molte cose. L’ampia maggioranza di cui gode e il sostegno dei sondaggi gli avrebbero permesso di prendere decisioni prima. Ha preferito prender tempo per attutire il colpo. Ma si deve riconoscere che una cosa che ha detto in questi giorni è indiscutibile: non c’era alternativa ai tagli da 65 miliardi di euro per i prossimi tre anni. Certamente si può discutere se sia un taglio sufficiente e adeguato. Le informazioni fornite agli investitori internazionali, intanto, spiegano che saranno recuperati 56.440 milioni di euro entro il 2014. Il 40% proverrà principalmente dal l’aumento dell’Iva e il 60% dalla riduzione delle spese quali gli stipendi degli statali e le indennità di disoccupazione.
Vedremo se questa composizione (40% entrate, 60% tagli) soddisferà i mercati. Gli analisti dicono che per tranquillizzare gli investitori sarebbe stata necessaria una formula diversa, con almeno il 70% di tagli. Non è da escludere quindi che in futuro essi possano aumentare. In molti poi sono convinti che il sistema spagnolo di sostegni alla disoccupazione disincentivi la ricerca del lavoro. Su questo si potrebbe aprire un lungo dibattito.
Quel che è certo è che le richieste di Bruxelles, a un ritmo che non è desiderabile, mettono le basi per un necessario risanamento dell’economia spagnola. Per ora le proteste non sono molto forti, ma sicuramente cresceranno. Che ci sia una minoranza che scenda in strada non è molto importante. Ciò che conta è che esista un popolo capace di reagire con determinazione di fronte alla nuova situazione.
Nella storia recente della Spagna ci sono state due occasioni in cui il popolo ha saputo far fronte alle difficoltà. Una è stata con il Piano di stabilizzazione del ‘59 che ha permesso di trasformare l’economia franchista. Ci furono tagli dei salari e della spesa e un aumento delle tasse. Ma ci fu anche la coscienza che era necessario vivere in un modo diverso e che bisognava lavorare insieme per venirne fuori. Lo stesso è accaduto durante la Transizione con i Patti di Moncloa. Un altro buon esempio lo si trova nella recente storia italiana con la ricostruzione postbellica.
In tali momenti l’energia sorgeva dal desiderio di risollevare la nazione, dalla forza di stare davanti alla realtà e non ai sogni. Desiderio e realtà restano i due strumenti per cambiare mentalità, per aumentare la fiducia nell’altro, per cogliere le opportunità, per essere pronti al nuovo. Sono sfide troppo grandi per essere affrontare con una posizione individualista. Ecco perché, oggi più che mai, è tempo di essere realmente accompagnati, tempo di costruire un popolo.