Per fortuna c’è la crisi

Proprio ora è bene ricordarcelo: questa crisi si è manifestata economicamente, ma ha avuto un origine educativa e può essere definitivamente sconfitta solo su questo piano

«La libertà ci riempie la vita di menate. A livelli così parossistici da farci definire “insopportabile” il rumore del nostro vicino di casa che trascina le sedie della cucina invece di sollevarle, “abissale” la differenza di prezzo degli asparagi fuori stagione fra due banchi adiacenti del mercato, “vergognoso” un ritardo minore o uguale a venti minuti del treno ad alta velocità sul tratto Torino-Milano, “a pezzi” la nostra condizione psico-fisica dopo una notte di sonno appena appena discontinuo». (Paolo Giordano, Corriere della Sera 27 giugno).

E agli esempi proposti dall’autore de La solitudine dei numeri primi è facile aggiungerne altri come l’insofferenza per gli aerei rimasti forzatamente a terra a causa della nube vulcanica o la difficile accettazione di condizioni climatiche non perfette durante attesi e costosi periodi di vacanza. La caratteristica comune di questi atteggiamenti è che fanno riferimento a cose oggettive, non inventate, e senza alcun dubbio negative. La libertà dai vincoli e di opinione, mai così ampia per ogni generazione precedente, inoltre, è di per sé sicuramente un bene, ma l’insieme del tutto è chiaramente una difficoltà di vita, incapace di affrontare, se non con una naturale lamentela, le difficoltà di tutti i giorni. Proprio come in economia.

Nel corso degli ultimi due anni abbiamo parlato di crisi anche quando le nostre condizioni di vita quotidiana – lavoro, cibo, vestiti, tempo libero – non erano sostanzialmente intaccate, per fortuna, dagli avvenimenti. Dal segno meno davanti alle principali grandezze economiche abbiamo ricavato giudizi apocalittici anche quando queste erano di gran lunga migliori rispetto ad altri paesi a noi confrontabili e, soprattutto, quando ciò non implicava un chiaro peggioramento delle condizioni di vita delle persone.

Significativo da questo punto di vista il martellante riferimento al Pil retrocesso ai valori del 2002 o, nelle ipotesi più negative, al 1998. Anni, entrambi, in cui l’Italia non usciva dai bombardamenti della seconda guerra mondiale o dall’influenza spagnola che ai primi del secolo scorso causò centinaia di migliaia di morti.

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Anni in cui, al contrario, tutti noi probabilmente facevano le stesse cose di oggi: guidavamo una macchina, invitavamo a pranzo parenti e amici, andavamo in vacanza, discutevamo dell’ultimo film visto o libro letto. Tutte cose fatte allora, magari, con una frequenza superiore a oggi, ma senza che questa diminuzione abbia causato evidenti peggioramenti materiali dell’esistenza.

 

Questo modo di affrontare le cose ha un‘importante conseguenza: ingigantendo i nostri problemi ci chiude in noi stessi e ci frena nell’aiuto a chi ha subito un danno. Educativo da questo punto di vista il terremoto abruzzese: un popolo in crisi economica ha toccato con mano la quasi infinita possibilità di dare.

A tutti i livelli, internazionali e locali, suffragati da numeri o nel passaparola tra addetti ai lavori, oggi si afferma che la crisi è finita o, per lo meno, che si ricomincia a pensare alla ripresa. Speriamo, come credo, che sia vero e che a questo primo disgelo non subentri una repentina diminuzione delle temperature. Tuttavia proprio ora è bene ricordarcelo: questa crisi si è manifestata economicamente, ma ha avuto un origine educativa e può essere definitivamente sconfitta solo su questo piano.

 

 

Tutto è partito dal pensare, nell’economia più forte al mondo, di poter vivere a debito e, dunque, al di sopra delle proprie possibilità. In un sol colpo sono stati archiviati, come pezzi d’antiquariato, senso del limite e della misura, aleatorietà della vita umana, dipendenza da un destino presente, ma sconosciuto nelle sue concrete dinamiche: con tutte le conseguenze economiche del caso. Da qui occorre ripartire perché altrimenti, anche finita numericamente, la crisi non ci avrà insegnato nulla.

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