Dal torpore di Eliot alla felicità di Péguy

Nessun evento è più impensabile del fatto che Dio sia diventato un bambino. Eppure lo banalizziamo. Forse per questo la Chiesa ci fa celebrare oggi i Santi Innocenti. PIGI COLOGNESI

Adesso che la festa è passata, possiamo chiederci — sulla scia di quanto Thomas Eliot ha scritto ne La coltivazione degli alberi di Natale — di quale tipo sia stata, quale atteggiamento l’abbia determinata. Forse ha prevalso quel lento smarrimento della sensibilità, quel progressivo abbandono al sonno (favorito dall’eccesso di cibo) che il poeta definisce «torpore». Oppure è stato un Natale all’insegna delle relazioni «sociali» da rispettare obbligatoriamente o da rinfocolare per interesse; relazioni raramente caratterizzate dalla freschezza che solo il rapporto gratuito consente. O magari è stato «sfacciatamente commerciale», nel senso che almeno una volta nell’anno ci siamo liberati dei freni che un minimo di realismo solitamente pone alla nostra smania di acquistare e consumare. Nell’aggettivo «chiassoso» Eliot — penso — raccoglie tutti quei modi di far festa che cercano lo stordimento che impedisce, almeno per un po’, di vedere un vuoto che si ha dentro di sé e che domina nei rapporti. Dietro a «puerile» c’è il medesimo desiderio di fuga ricercato, invece che nel frastuono, nei sentimentalismi mielosi che il Natale sembrerebbe favorire.

Il bambino, dice però Eliot, non è affatto puerile; egli possiede l’atteggiamento autentico di fronte al Natale: poiché «crede che ogni candela sia una stella e l’angelo / dorato che spiega le ali alla cima dell’albero / non solo una decorazione ma anche un angelo», il bambino «stupisce di fronte all’albero di Natale». Ciò che lo fa grande, lieto, sveglio, inchiodato al presente è lo «spirito di meraviglia». Solo questo fa della festa — e qui Eliot, nella sua proverbiale potenza sintetica, arriva al cuore della questione — «un evento accettato non come pretesto». Nelle festività giunge infatti all’acme quell’atteggiamento che rende torpido, interessato, ingordo, chiassoso o sentimentale il gesto quotidiano: il suo essere un puro pretesto per «altro», qualsiasi cosa si nasconda dietro questa parola. Così ogni avvenimento, ogni gesto finisce per produrre quello che Eliot dice subito dopo: «stanca abitudine, fatica, tedio, consapevolezza della morte, coscienza del fallimento».

Questa dinamica si evidenzia più chiaramente a Natale perché nessun avvenimento è, in sé, più impensabile, più fuori misura, più stupefacente del fatto che Dio sia diventato un bambino; quindi fa più stridore la banalizzazione di un fatto di tale portata. Eppure l’abbiamo banalizzato, lo banalizziamo. Forse per risollevarci da tale condizione la liturgia della Chiesa ci fa celebrare oggi i Santi Innocenti. Quei bambini non hanno avuto il tempo di trasformare niente in abitudine e tedio, non hanno avuto la possibilità di ridurre a pretesto qualcosa che neppure conoscevano e per cui, pure, in qualche modo hanno sacrificato la vita (perché conservare lo stupore infantile per noi grandi, che di tutto facciamo pretesto, non è senza sacrificio). Raffigurandoli in paradiso mentre giocano senza neppure preoccuparsi di chiederne il permesso a Dio, Péguy ci mostra lo «spirito di meraviglia» diventato condizione stabile: felicità.

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