Sotto il cielo della violenza

Dall'inferno di Dante Alighieri a quello che si vive tutti i giorni in Ucraina. L'editoriale di GIOVANNA PARRAVICINI affronta la grave crisi che attraversa l'est europeo

La sala del Centro culturale «Biblioteca dello Spirito» è gremita. Si attende una lezione di Ol’ga Sedakova sul Paradiso di Dante Alighieri; qualcuno me lo dice anche, esplicitamente: nella Mosca di oggi, sono venuta a respirare una boccata di «paradiso», ne ho proprio bisogno…

Ma quando vado ad accogliere la relatrice, lei mi dice che no, ha cambiato tema – e precisamente ha scelto i canti dell’Inferno dedicati ai violenti, nel VII cerchio, intitolando la lezione «Sotto il cielo della violenza»… 

Quando, pochi minuti dopo, la presento al pubblico, mi accorgo che il suono delle mie parole, che scelgo il più neutre possibili, ha un suono speciale – produce nelle fisionomie delle persone pressapoco la stessa reazione di quando Dante, nella selva dei suicidi, spezza ignaro un ramoscello facendone sgorgare sangue e lamenti: per tutti è chiaro che, ripercorrendo con l’antico poeta fiorentino le lande infernali, stiamo in realtà dando un nome al nostro dolore, ricercando un giudizio sulla nostra angoscia, interrogandoci sulla responsabilità per il «cielo della violenza» che incombe sull’umanità di oggi. 

«La violenza è esattamente il contrario della forza, la violenza per sua natura è sterile, non produce frutto, lascia solo terra bruciata…»: Dante, che la Sedakova legge e commenta per oltre due ore, in un silenzio sospeso, invoca nel suo poema cielo e terra, passato e presente, l’umanità intera a testimoniare lo spessore di quest’esperienza, ferisce e riapre la speranza.

A quest’immagine, che resta per me una metafora dell’autentica conoscenza, mai come in questi giorni sembra contrapporsi il nichilismo dell’informazione, infarcito di analisi geopolitiche che pretendono di spiegare il mondo ma in realtà contribuiscono a svenderlo. Da un lato, in tutto il mondo non si fa che parlare della «guerra mondiale che si sta combattendo a pezzi», dall’altro, sembra si faccia apposta a travisare e screditare voci ed esperienze che offrono una testimonianza, indicano un cammino. Mi ha colpito, in particolare, l’articolo apparso il 24 febbraio su «AsiaNews», solitamente un’agenzia molto equilibrata, a firma di Vladimir Rozanskij: vi si liquida sbrigativamente l’operato della Chiesa cattolica dicendo che «in Russia e Ucraina i pastori sono screditati e inibiti, incapaci di guidare i popoli e le coscienze in spirito di pace e fratellanza», che l’«entusiasmo minimalista di papa Francesco sembra partire dal presupposto della scarsa significanza della Chiesa nel mondo, dal suo “essere periferia” prima ancora di agire nelle periferie», e che «in Russia i cattolici sono confinati in piccole e silenziose cappellanie». 

Non so se l’autore o chi si cela dietro questo pseudonimo abbia mai letto o ascoltato sul serio il papa oppure sia mai stato in qualche comunità in Russia o Ucraina, ma soprattutto faccio fatica a immaginare che cosa pensi del metodo scelto da Dio per salvarci, facendosi uomo in un’oscura periferia come un oscuro missionario…

Io credo che, sull’orlo di una tragedia globale su cui continuiamo a danzare spensierati, dovremmo avere il pudore di parlare solo di ciò che per noi è diventato esperienza. Perché proprio questa irresponsabilità di espressione contribuisce a creare, come ha scritto recentemente a Mosca Svetlana Panic, il veleno «che ammorba il mondo. 

È proprio essa, e non la ragione, la carità o almeno un sano pragmatismo a dettare il modo di agire. Nel “polo” più o meno civile genera un’irrisione che vuol farsi passare per sottigliezza o arguzia di spirito, nel “polo” guerrafondaio legalizza l’omicidio. Il più elevato impulso, moltiplicato per questo male, si vede azzerare completamente. Chiunque può trovarsi “ridotto”, “messo fra parentesi” in questa aritmetica infernale».

La gente che si attacca alla televisione o a internet, le persone venute alla «Biblioteca dello Spirito» a sentir parlare di paradiso e inferno, il milione sfilato a Parigi o i sei milioni accorsi da papa Francesco a Manila rispondevano forse inizialmente all’impulso elementare di restare uniti di fronte all’angoscia di un pericolo incombente. Non ci basta, però, la risposta di un volontarismo che tenta di «superare la fragile incapacità della ragione teorica con la ragione del cuore», come ci ricorda don Giussani. 

Nè, tantomeno, la menzogna del distruttivismo nichilista che vorrebbe azzerare l’unica speranza che ci resta – una speranza che coincide con la «testimonianza di una vita cambiata, piena di significato, capace di abbracciare il diverso e di destare la sua umanità» (J. Carron, «Corriere della sera», 13 febbraio). Per questo l’umanità di papa Francesco, di missionari e di semplici cristiani che danno la vita senza alcuna retorica geopolitica fa tanta rabbia e paura ai «signori della guerra», dall’una e dall’altra parte del mondo.

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