In una sua famosa canzone, Lucio Dalla si interrogava sull’anno che verrà. Il nuovo anno comincia oggi e un ottimo modo per fermarsi a riflettere è leggere il nuovo romanzo di Luca Doninelli, “Le cose semplici”. Senza rubare il mestiere ai critici professionisti, trovo che sia un libro bellissimo e affascinante.
Lo scenario a prima vista può ricordare molti libri e film “catastrofici”: è successo qualcosa e il mondo, visto da uno che vive a Milano, è andato indietro di secoli. Non esistono più energia elettrica, benzina, televisione, telefoni e qualunque tipo di comunicazione a cui siamo abituati. Non ci sono più mezzi di trasporto e neanche una autorità costituita. Non si fa manutenzione di nulla e i palazzi crollano. Ovunque si assiste a violenza, distruzione, degrado, abbandono.
L’originalità del libro sta nel fatto che a causare tutto ciò non è stata una guerra nucleare o una catastrofe naturale. Il mondo è regredito per via di un progressivo degrado umano: la voglia di vivere, di essere e di costruire sono andate scemando sempre di più. Gli uomini hanno perso ogni desiderio di adempiere ai loro compiti quotidiani, ad esempio condurre un’azienda, curare le opere pubbliche, assumersi responsabilità, educare, governare e farsi governare.
E’, in parte, quello che vediamo all’opera già adesso: apatia, noia, mancanza di passione, riduzione del desiderio. Nel romanzo questa atrofia dell’umano ha raggiunto l’apice, al punto tale che gli uomini non hanno più voglia di fare le cose semplici e complesse che rendono possibile l’esistenza personale e sociale.
Tuttavia, nel mondo sfasciato descritto da Doninelli, ci sono delle eccezioni, non tutto è piatto e uniforme, qualcuno non ha ucciso del tutto il desiderio. Dodò, il protagonista, ci fa capire che qualcosa continua ad accadere e ce lo racconta attraverso diversi personaggi: il professor Malinverni con il suo strano amore per la giustizia; Alda, la ragazza che non smette di desiderare un amore non solo fisico; il dottor Boffi che continua a curare le persone e cerca di ricostruire un ospedale; Zazza, la cui dignità non è distrutta neanche dalla malattia. Neppure un mondo sull’orlo dell’autodistruzione può sopprimere quella ricchezza profonda che è nell’uomo, quel vertice dell’umano che è l’amore vero e gratuito.
Lo si vede soprattutto in Dodò che, per via del crollo delle comunicazioni e dei mezzi di trasporto, non vede e non può comunicare da vent’anni con sua moglie Chantal, una donna di straordinaria dolcezza e bellezza, genio precoce della matematica di fama mondiale, dotata di umanità e di una fede profonde e incrollabili. Quando le comunicazioni s’interrompono lei si trovava negli Stati Uniti. Dodò non sa neanche se sia viva, ma continua ad amarla. Il suo però non è un ricordo tra i tanti tristi che ha: per lui Chantal è una presenza concreta, che gli dà speranza.
In questo si svela un altro punto, struggente, del romanzo: nelle prove a cui sono sottoposti, i protagonisti non fanno prevalere la sconfitta e il lamento.
Si può vivere di un volto lontano nel tempo e nello spazio, ma che misteriosamente continua a darci speranza o questo è un intimismo, una illusione in cui rifugiarsi quando intorno a noi tutto si disfa? “Caro cardis saluti” diceva Tertulliano, ossia “la carne è il cardine della salvezza”. Doninelli, attraverso una serie di intrecci e avvenimenti, ci mostra che, al fondo di colui o colei che si ama c’è un miracolo e un mistero cui si anela. Questo è ciò che rende il legame più forte di qualunque distacco. Quella Presenza così scoperta, non ci abbandona mai e fa rinascere la passione per il destino di tutti. E così si vedono i germogli di una nuova civiltà che rinasce proprio dal punto in cui è morta, dal risveglio del desiderio e della fede nelle “cose semplici” che fanno la vita quotidiana e le svolte epocali.
In ogni vicenda che si dipana nel romanzo, non è risparmiato alcun dolore, ma non vengono meno una strana positività, una apparentemente impossibile letizia, una ingenua baldanza, così diverse da certo eroismo da superuomini.
In “Le cose semplici” si respira l’atmosfera di alcuni grandi scrittori: qualcosa della provvidenza manzoniana, del dolore unito al destino buono dei racconti di Flannery O’Connor, del desiderio di bene insopprimibile dei personaggi di Graham Greene, qualunque sia il degrado cui la vita li ha portati.
Soprattutto – ed è questo l’augurio che si può trarre dal romanzo per l’anno che verrà – come nel “Padrone del mondo” di Benson, trapela evidente che, anche quando tutto sembra compromesso, la storia dell’umanità non può finire nel male. L’anno prossimo, come in ogni epoca, ci sarà sempre un uomo o una donna la cui la nostalgia di infinito riscatterà dal baratro di apatia e male verso cui, sempre più spesso, sembriamo scivolare.